Il peso della fragilità umana in un teatro che mescoli il classico al contemporaneo: la ricerca de Il Mulino di Amleto
È un autunno “caldo” quello del Teatro Fontana di Milano, che tra il mese di ottobre e quello di novembre ha portato sul palcoscenico due spettacoli de Il Mulino di Amleto, compagnia teatrale torinese nata nel 2009 per volontà di un gruppo di attori e di attrici diplomati alla Scuola del Teatro Stabile del capoluogo piemontese. Uno dei principii che ispirano e corroborano la poetica della compagnia consiste nel “fare un teatro in cui il classico sia affrontato come il contemporaneo e il contemporaneo come un classico”, per prendere a prestito le parole scambiate con noi dal regista Marco Lorenzi, che citano il lituano Oskaras Koršunovas. Attualmente, infatti, il punto di partenza del lavoro artistico de Il Mulino di Amleto è la letteratura ottocentesca e primo-novecentesca: Ruy Blas. Quattro quadri sull’identità e il coraggio, andato in scena dal 25 al 28 ottobre, è un riadattamento in chiave grottesca del dramma Ruy Blas, scritto da Victor Hugo e rappresentato per la prima volta nel 1838; Platonov. Un modo come un altro per dire che la felicità è altrove, andato in scena dal 5 al 18 novembre, si ispira al dramma rimasto incompiuto di un giovanissimo Anton Čechov, rappresentato postumo nel 1923.
L’interesse per questi uomini, ci spiega il regista, nasce dal bisogno di creare due esseri umani, che portino con sé il “peso” delle loro fragilità. Per Lorenzi, infatti, un teatro puramente formale costituito dalle cosiddette “maschere” non avrebbe ragion d’essere, in quanto pregiudicherebbe l’umanità dei suoi protagonisti. Perché questa esigenza quasi politica del teatro venga portata a compimento, è necessario concedersi dei tempi mediamente lunghi, che consentano di adoperare un’indagine certosina degli esseri umani che calcano il palcoscenico, senza per questo giudicarli. Secondo quest’ottica, storie e persone sono destinate all’indefinitezza e alla molteplicità di interpretazioni con cui vengono lette; infatti, la “formula” adottata da Il Mulino di Amleto è quella del cosiddetto spettacolo aperto. In Ruy Blas, per esempio, attori e spettatori occupano il medesimo spazio, ovvero un rettangolo bianco con luci al neon e sedie disposte “a ferro di cavallo” intorno allo stesso. L’efficace compenetrazione tra gli attori e il pubblico rende il dramma progressivamente più patetico: i sei personaggi – due dei quali si scambiano il ruolo di narratori esterni – recitano in mezzo a noi e, in due occasioni, finanche con noi. In Platonov, invece, gli attori accolgono gli spettatori all’ingresso della sala, offrendo loro dei bicchieri di vodka, bevanda alcolica prediletta dagli attori/commensali.
Il tessuto della trama di Ruy Blas resta sostanzialmente fedele all’originale: il dramma è ambientato nella Spagna assolutista del XVII secolo, alla corte di Carlo V. Il conte Don Sallustio (Angelo Maria Tronca) ha ingaggiato il lacchè Ruy Blas (Yuri D’Agostino) perché questi lo aiuti ad ordire vendetta contro sua moglie, la regina Maria (Barbara Mazzi), colpevole di averlo esiliato. Ruy Blas, che dovrà fingersi Don Cesare (Francesco Gargiulo), cugino del conte e uomo di rango nobile, s’innamorerà della regina, conscio che il suo sentimento sia un “ossimoro fatale: amore regale per un servo”. Quest’amore, sulle prime furtivo e unilaterale, trova una corresponsione da parte della regina – “the queen”, come evidenzia la sua maglietta – che in un intenso e breve monologo chiosa: “Ti prendi cura di tutto ciò che mi riguarda. Ieri un fiore, oggi uno Stato. Non è così che si conquista un cuore?”. Ruy Blas, infatti, motivato dal suo sentimento, si serve di questa “metamorfosi”, che lo aveva privato anzitempo della sua vera identità, anche per un altro scopo: ergersi a vox populi, poiché da finto potente prova a cambiare le sorti di un Paese vessato dalla corruzione e dalle diseguaglianze sociali. In quest’ottica viene inscenata una seduta governativa dai toni sardonici in cui i presenti si arenano in discussioni sterili o – nel più infelice dei casi – giocano con l’iPhone.
In un gioco di specchi, di inganni, di identità perdute, simulate e ritrovate, gli attori si muovono in modo febbrile e concitato sul palcoscenico: spadaccini provetti – in una scena di nudo integrale – , musici delicati (Anna Montalenti, che suona il flauto traverso), dame di compagnia eroiche e fedeli (Alba Maria Porto). Grazie a un gruppo che agisce, e interagisce, in uno spazio piccolo e familiare, Marco Lorenzi riscrive un dramma in cui politica, amore e bisogno di appartenenza si intrecciano: “Chi sono io? Sono il mio nome? Il mio ruolo o le mie azioni?” si chiede e ci chiede Ruy Blas. Queste domande non trovano una risposta univoca, ma aprono senz’altro le porte a un dramma universale, quello esistenziale, che si concreta, più che in Ruy Blas, nella figura di Platonov. Lo stesso regista ravvisa una sostanziale differenza tra i due. Il primo è un uomo dell’Ottocento, che ha ancora il coraggio di combattere per i propri desideri (siano essi ideali politici e/o sentimentali). Platonov (Michele Sinisi), invece, è già un uomo del Novecento perché non ha più la forza che anima Ruy Blas. Maestro elementare frustrato e bevitore compulsivo di vodka, egli appare incapace di scegliere; è sposato con Sasa (Rebecca Rossetti) che tradisce simultaneamente con la giovane vedova Anna Petrovna (Roberta Calia) e la sua “storica” fiamma, Sofja (Barbara Mazzi), diventata moglie di Sergej (Raffaele Musella), aspirante regista teatrale appassionato di Shakespeare. Questo “groviglio” di personaggi, a cui si uniscono un giovane medico spiantato (Angelo Maria Tronca) e un ricco proprietario terriero, inguaribile romantico di belle (e vane) speranze (Stefano Braschi), imbastisce, durante l’intera durata dello spettacolo, una cena quasi trimalchionica, dai toni beffardi e paradossali. Come in Ruy Blas, anche qui gli attori si muovono convulsamente tra urla, corse, strepitii, pianti, risate e balli. Questa frenesia, acuita dalle originalissime musiche di Giorgio Tedesco (Noir Desire, CocoRosie, Tom Waits), crea un certo disorientamento nello spettatore. Eppure dietro questa patina apparentemente festosa, si celano lo spettro della morte del padre di Platonov, la ripugnanza verso se stessi (“Andiamo via da questo mio eterno io”), la consapevolezza della sconfitta (“Io ho fallito nel mio essere uomo”), il trionfo dell’inazione (Partiamo io, te e la felicità? è l’inascoltata proposta di Sofja a Platonov). Questi elementi rendono Platonov umano, troppo umano e bisognoso di alimentare le sue illusioni, come suggerisce il sottotitolo: “Un modo come un altro per dire che la felicità è altrove”. Eppure finché non trova una risposta, Platonov – e, per estensione, ogni uomo – sente impellente il bisogno di vivere.
(Immagine di copertina: “Ruy Blas”. Foto di Manuela Giusto)