Arti Performative

Simone Amendola/Valerio Malorni // Nessuno può tenere Baby in un angolo

Maria Ponticelli

Prodotto da Blue Desk, e nato nell’ambito delle residenze artistiche di TAN Teatri Associati di Napoli e di Carrozzerie not a Roma (e con il sostegno del festival Attraversamenti Multipli), Nessuno può tenere Baby in un angolo è uno spettacolo costruito intorno ad una drammaturgia “a precipizio”: un’ora e trenta di tensione, in attesa di conoscere la verità su un orrendo delitto che vede vittima una donna di cui non si conosce l’identità, decapitata nel retro di un distributore di benzina. Sul palco un attore urla il suo monologo fino a perdere il fiato, è il benzinaio Lucio Schiamone chiamato a rendere la propria deposizione (Valerio Malorni). Malorni, che insieme a Simone Amendola è anche regista dello spettacolo (mentre il secondo ne è anche l’autore), esordisce srotolando sulla scena una storia personale, rievocando immagini e situazioni appartenenti all’infanzia: il padre che russa, che fa il pieno di benzina, il padre che conduce un’esistenza del tutto comune a tante altre e che tuttavia egli crede un supereroe; e poi la scelta di non proseguire gli studi, l’insoddisfazione per un lavoro e un ruolo difficili da riconoscere, la ricerca di una donna da amare e le difficoltà a relazionarsi con l’altro sesso. Lucio Schiamone parte da tutto questo, convoca passato e presente sulla scena come a fornire un contesto ideale in cui inserire un efferato delitto, ripercorrendo minuto per minuto i movimenti e gli spostamenti compiuti la sera in cui è avvenuto l’assassinio. Lo fa con una consapevolezza offuscata dal peso del giudizio che ha di sé e di una vita che, tutto sommato, considera mediocre. La tensione drammaturgica si esplicita nella dicotomia generata dal bizzarro tentativo di volere da un lato persuadere se stesso dell’essere capace di tanta ferocia e dall’altro provare a dimostrare una tenace, nervosa ed esplosiva difesa della propria innocenza. Lucio Schiamone entra ed esce dal perimetro tracciato da un nastro nero e giallo così come entra ed esce dalla propria consapevolezza: la no cross line che egli stesso provvede a tendere è il confine tra un auto-riconoscimento e la colpevolezza cucitagli addosso da un sistema deviato e feroce, abile a designare il “colpevole perfetto”. 

Valerio Malorni in “Nessuno può tenere Baby in un angolo” di Simone Amendola/Valerio Malorni


Pochi gli elementi scenici ma sapientemente disposti a definire una cornice di isolamento dell’attore. Seduto su un’enorme sedia posta al centro, si accompagna ai turbamenti interiori del suo personaggio e a un’illuminazione che inserisce nella stessa diagonale la borsa, contenente la testa della donna decapitata, e il presunto colpevole. Si potrebbe banalmente pensare che quello di Amendola/Malorni sia uno spettacolo che volge pietosamente lo sguardo alla triste e attuale realtà della violenza sulle donne, ma leggere in questo modo il lavoro sarebbe come passare il dito sul pelo dell’acqua senza immergersi nella ben più profonda e insidiosa realtà della emarginazione sociale, fatta di mancata realizzazione personale, senso d’inadeguatezza e difficoltà nelle relazioni. La voce fuori campo, unica interlocutrice di Malorni, è la giustizia sommaria, popolare e populista; una “giustizia” che si fa nei palinsesti televisivi, che si cela dietro gli schermi di un computer e si insidia nelle coscienze come le micro-infiltrazioni. Il j’accuse che arriva dall’esterno devia di proposito le parole di Schiamone, parole già biascicate nell’alternanza di lucidità e confusione, e crocifigge il benzinaio con la sua stessa deposizione. È a questo punto quindi che il pattern di tensione e suspence viene interrotto da una variazione che innesta una parentesi scenica: ha del surreale, ma in realtà ben rappresenta le dinamiche psicologiche del trentottenne Schiamone, in preda ad uno strenue tentativo che non conduce tanto alla difesa della sua persona, quanto al voler essere capito, compreso, nell’accezione più affettiva del termine. Malorni ripete quindi i passi della sua verità fingendo una pacata compostezza e pronunciando le parole in un finto spagnolo che smorza la tensione e strappa qualche risata in platea. L’intermezzo, che appare poco integrato con l’impianto drammaturgico, è in realtà l’ennesimo tentativo di Lucio di mettere in fila gli avvenimenti, l’ennesima occasione di elencare le proprie personali frustrazioni che delineano l’immagine di una persona incapace di godere di ciò che possiede, così come di procurarsi gratificazioni maggiori; di un uomo illuso di poter essere amato da una donna incontrata per caso e che, con amara sorpresa, scopre essere la vittima dell’omicidio. È qui che la colpa assume un altro significato, diventando la sostanza della sensazione di sbigottimento che trapassa l’uomo. Il pianto finale apre gli occhi su uno scenario che è adesso nitido come un paesaggio dopo la pioggia. Le parole di “Mi sono innamorato di te” del compianto cantautore Luigi Tenco accompagnano la catarsi dell’uomo, mentre sente pendere sulla propria testa il giudizio di un’accusa dalla quale non riesce a difendersi e, ancora, il peso dell’inettitudine: non essendo stato in grado di salvare la ragazza di cui era innamorato – e che ha mancato di soccorrere – per dar corso alla propria dose quotidiana di risentimento e autocommiserazione.

 

 

NESSUNO PUÒ TENERE BABY IN UN ANGOLO

con Valerio Malorni
scritto da Simone Amendola
collaborazione al testo Sandro Torella
regia Simone Amendola e Valerio Malorni
produzione Blue Desk
residenze produttive TAN Teatri Associati Napoli, Carrozzerie not Roma
con il sostegno di Festival Attraversamenti Multipli



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