Company Wayne McGregor // Icons
Potenti e leggerissimi. Fortemente tecnici eppure dotati di movimenti sinuosi e caratterizzanti. Dalle personalità individuali estremamente volitive ma sempre armoniosamente connessi. I danzatori della Company Wayne McGregor, giunta ormai a 25 anni di attività, non sono dei semplici membri selezionati tra tersicorei dotati. Sono il marchio di fabbrica dell’intera produzione del talentuoso coreografo inglese, comandante dell’Impero Britannico “per la sua particolare dedizione alla danza”, e Sabato 7 Luglio gli spettatori del Ravello Festival non hanno potuto fare altro che prenderne atto. D’altronde, per dividere il palco con Alessandra Ferri, con la quale McGregor ha avviato una splendida e proficua collaborazione, bisogna per forza dimostrare di essere oltre l’eccellenza.
Un temporale imprevisto a pochi minuti dall’inizio ufficiale dello spettacolo ha imposto un cambio di location. L’esclusiva italiana di “Icons” – una selezione del meglio della produzione più recente di McGregor – si è tenuta nell’Auditorium Oscar Niemeyer, ri-allestito in tutta fretta, e non sul Belvedere di Villa Rufolo. Se l’atmosfera è stata sicuramente penalizzata (la vista sul mare di notte incorniciata dagli splendidi giardini della villa è imparagonabile), il pubblico ci ha senz’altro guadagnato in sensazioni trasmesse dai corpi. Una maggiore prossimità ha regalato il ritmo del rumore nei passi d’insieme, i respiri, tutta la bellezza della muscolarità e la piena espressività.
L’apertura è stata affidata a Witness, passo a due con la Ferri e Herman Cornejo. Tecnico, geometrico, essenziale, così come la musica a corredo del contemporaneo Nils Frahm. Protagonisti assoluti sono stati i dotatissimi corpi dei due principal e tutte le geometrie che sono capaci di disegnare nello spazio e tra di loro.
A seguire, Autobiography Edits ha presentato tutti gli elementi della compagnia (Rebecca Bassett-Graham, Jordan James Bridge, Travis Clausen-Knight, Louis McMiller, Daniela Neugebauer, Jacob O’Connell, James Pett, Fukiko Takase, Po-Lin Tung, Jessica Wrig) attraverso un lavoro coreografico emblematico della tipologia di ricerca compiuta da McGregor. L’artista è partito dall’idea di genoma, l’insieme dei 23 cromosomi che compongono il Dna e, quindi, dall’unicità di ciascun essere umano. Ha mappato il suo, e lo ha scomposto in sequenze: ad ognuna ha attribuito un ricordo, una sensazione, un avvenimento e vi ha fatto corrispondere un “pezzo” coreografato. Prima di ogni spettacolo, un algoritmo ricombina la composizione delle sequenze (esattamente come fa la natura con le parti dei genomi, delle quali esistono oltre 24.000 possibilità) e decide in che ordine si svolgerà la produzione. Dunque Autobiography Edits è sì strutturato, ma diverso ogni sera. I danzatori, che hanno contribuito anche alla coreografia, si alternano sulla scena e nelle interazioni tra di loro come in un meccanismo perfetto che, di volta in volta, decide di quali ingranaggi necessita per continuare. Assoli, coppie, terzetti, sequenze a specchio, suddivise per gruppi che si muovono in contemporanea, in canone, o creano veri e propri dialoghi tra corpi che, anche nei passi a due, si collegano ma non si fondono; interagiscono ma non coincidono mai.
Non è mancata qualche lacrima di commozione per il passo a due del terzo atto di Woolf Works messo in scena da Alessandra Ferri e Federico Bonelli, principal del Royal Ballet. Il lavoro ispirato alla vita e alle opere della scrittrice inglese Virginia Woolf ha portato a McGregor un prestigioso Oliver Award nel 2016 per la Best New Dance Production. Aver cucito addosso il ruolo ad una delle più intense e drammatiche danzatrici del secolo ha sicuramente pagato. La Ferri e Bonelli, leggeri e, al contempo, estremamente “fisici”, si muovono sul tappeto sonoro che Max Richter ha creato mescolando le parole dell’ultima lettera che la Woolf ha scritto al marito Leonard prima di togliersi la vita all’elemento che ha scelto per portare a termine il suo intento: l’acqua. “So I am doing what seems the best thing to do. You have given me the greatest possible happiness”. Passionale e inesorabile l’interpretazione della stella italiana, come i pensieri della scrittrice in quegli ultimi istanti. È qui che, per qualche attimo, la mancanza dello scenario di Villa Rufolo si è fatta sentire: quando Bonelli adagia lentamente il corpo della Ferri al suolo e, prima del buio, nessuno respira, per paura di interrompere la magia. Che quadro meraviglioso che si sarebbe creato sul Belvedere.
Diverso il registro di Bach Form. Sono i danzatori della compagnia a chiudere la serata con difficilissime sequenze coreografiche realizzate per l’incompiuta di Bach, “L’arte della fuga”. Anche qui alternanze, interazioni e transizioni sono fondamentali. Le dinamiche vengono svolte sulle diverse linee melodiche per poi ricongiungersi all’improvviso e proseguire all’unisono, prima di separarsi ancora. Alcuni danzatori, con un semplice sguardo, sembrano quasi sfidarsi tra loro in una gara a chi compirà il virtuosismo più complicato. Il tutto senza dimenticare il movimento fluido e magnetico che definisce lo stile di McGregor.
L’impatto della difficoltà tecnica, però, non tiene alta l’attenzione per l’intera durata. Alla lunga anche le più audaci destrezze stancano e, forse, a Bach Form manca quello scintillio di genialità, quell’esigenza artistica sottesa, che di solito caratterizzano le produzioni del coreografo inglese che con questo lavoro sembra aver ceduto alle lusinghe della mera autocelebrazione tecnica. Un appunto da fare giusto per assolvere al dovere di cronaca, senza assolutamente voler privare del suo valore una serata irripetibile di spettacolare danza.