“Cambio gli strumenti attorno alla stessa immaginazione”: Giulia Perelli, protagonista dell’ultimo lavoro di Romeo Castellucci, si racconta
Nell’ultimo lavoro di Romeo Castellucci da poco andato in scena al Teatro Argentina di Roma e prossimamente di nuovo all’estero, ovvero Democracy in America, Elizabeth, la donna puritana che cambia il suo rapporto con la fede ed entra in crisi, simbolo del fallimento degli ideali nutriti dai primi coloni americani (1830), dalle cui crepe risorge una visione più individualistica dell’uomo, è Giulia Perelli. La scena in cui scioglie la sua lunga chioma bruna, e la spinge con forza su un bastone orizzontale sospeso nell’aria producendo all’urto un tonfo cadenzato, quasi mistico, è sicuramente una delle più suggestive dello spettacolo, difficile da dimenticare. Democracy in America, che è ispirato al trattato del filosofo Alexis de Tocqueville alla base della riflessione moderna sul concetto di democrazia, però, rappresenta solo l’ultimo tassello di un mosaico interminabile di esperienze artistiche assai diverse, che Giulia colleziona con un’energia fuori dal comune, di cui è lei stessa a parlarci in questa intervista, in cui la riscopriamo attiva su più fronti.
Sei reduce dalle repliche romane di Democracy in America, spettacolo complesso, a partire dalla sua fonte di ispirazione, il trattato di Alexis de Tocqueville, ma anche per il tipo di messa in scena. Tu l’hai visto crescere dall’interno, come performer. Quali impressioni, suggestioni, ti ha lasciato lavorare in questo spettacolo, hai scoperto qualcosa di nuovo, di te, attraverso questo lavoro di Romeo Castellucci?
Ho vissuto questa esperienza più da attrice che da performer. Perché i testi, scritti da Claudia Castellucci, sono determinanti, il messaggio di Democracy in America è nelle parole. Il ruolo del testo e quindi quello attoriale sono decisivi, ma il mio approccio al lavoro si può dire che sia performativo, perché la mia stessa ricerca è tesa alla presenza, al corpo vivo, alla ricerca che “non sa” a prescindere, al vivere una condizione in modo vulnerabile, nudo. Ho imparato che vivere la scena significa attuare una discesa, raggiungere uno stato creativo e vedere le proprie immagini. Tuttavia, In Democracy in America il ruolo del testo e quello attoriale sono decisivi. Lo spettacolo contiene più linguaggi rigorosi, quello della parola, dell’immagine, della danza, del suono. Per questo, come tu dici, è complesso, proprio perché è anche completo.
Questo lavoro mi ha permesso un mondo di una ricchezza emotiva incredibile, di cui sarò sempre grata.
Mi ha fatto vedere anche la grande importanza della Tragedia, la necessità sociale e personale di ammettere il nero dell’umano, il nero in noi stessi; forse, come nella tragedia greca, per raggiungere una catarsi, un processo di consapevolezza, una civiltà migliore. Diceva Romeo Castellucci nelle prime interviste su Democracy in America che il momento di massima rappresentazione della tragedia ad Atene è stato quello di maggior fioritura della civiltà greca.
Com’è iniziata la collaborazione con Romeo Castellucci?
Da anni cercavo di conoscere dal suo interno il lavoro di Romeo Castellucci, il suo teatro è per me un vero nutrimento. Sento nella sua ricerca un rispetto della complessità, un’onestà intellettuale rara, una potenza immaginaria che trafigge.
Al provino bisognava interpretare tutto il testo, che ho amato da subito. Una scrittura che fa venire alla luce pian piano l’epifania di Elizabeth. È stato come sfogliare il personaggio petalo per petalo e arrivare al suo centro.
Il tuo percorso, formativo e professionale, è abbastanza singolare. Oltre a essere una performer nel senso alto del termine, che ha lavorato con l’artista sudafricano William Kentridge e in spettacoli straordinari che ancora dopo vent’anni si vedono sulle scene internazionali – come The Power of Theatrical Madness o anche This Is Theatre Like It Was Be Expecteed and Foreseen, di Jan Fabre – sei anche una drammaturga e possiedi un Master in sceneggiatura cinematografica. Da un lato la parola è secondaria rispetto al corpo e all’immagine, quasi come fosse un orpello, dall’altra c’è la scrittura pura e tutti gli altri codici (immagine, suono, presenza scenica) ne sono al servizio. Senza contare che hai anche firmato dei tuoi progetti artistici. Come si spiegano queste tue svariate identità e quali aspettative nutri per il futuro? Non temi che un’identità possa svalutare le altre?
Temo tutto in effetti, ma più di tutto, temo la mancanza di ricerca e di contenuto.
Gli strumenti d’espressione sono fondamentali, è importante conoscerne almeno uno a fondo, perché la disciplina che richiede la qualità e la conoscenza di uno strumento specifico affina più che passare da una cosa all’altra. Credo, però, anche che non ci si possa fermare al mezzo. Ho la sensazione che sia un’invenzione che ha subìto la nostra generazione iper-specializzata. Corsi volti a spiegare più il “come” che il “cosa”. A me muove il “cosa”, il contenuto. Possiamo anche essere un po’ più “rinascimentali”, praticare più discipline, se c’è l’urgenza di un contenuto che scalpita per uscire, o aver bisogno di sperimentare per trovare il proprio linguaggio personale. Il mio lavoro artistico si è generato nelle e dalle mie esperienze. Ha sempre camminato insieme al mio lavoro di attrice. È un’esigenza che nutre anche le mie interpretazioni e mantiene l’immaginazione attiva. Cambio solo gli strumenti: dal corpo passo alla matita, alla parola, alle istallazioni, al video; il processo di immaginazione, invece, resta sempre lo stesso. Seguo un movimento interno, concentrato, parto dal mio stato e lascio che arrivi una forma, un’immagine interiore. È tutto, i testi, i disegni, un incontro di immagini, una specie di coreografia di un movimento interno a cui presto una matita affinché lasci tracce su una superficie. Un solco dentro di me spesso mi mostra il volto delle cose. Sperimento con sincerità aderente al flusso.
Di te dici che sei nata nella provincia toscana in mezzo ai boschi e agli animali, e che sei amante della natura. Cosa ti ha convinta all’inizio a trasferirti a Roma? Perché proprio questa città e non un’altra? Cosa ti ha fatto comprendere la tua strada e come ha reagito la tua famiglia a fronte del noto detto “prendi l’arte e mettila da parte”?
Mi sono trasferita a Roma appena finito il liceo, per studiare recitazione. Mi sembrava, a suo tempo, il luogo dove c’era maggiore qualità del mestiere, ma ho vissuto anche in altre città. Forse non ci si può più permettere di vivere in un luogo solo. Bisogna pensarci viandanti, con l’atteggiamento flessibile e gli occhi aperti di chi viaggia in luoghi sconosciuti.
Ho scoperto di voler fare questo mestiere quando ero molto piccola. Da sempre poi ho scritto e disegnato. La mia famiglia è estranea alle dinamiche del mio lavoro, ma mi ha sempre rispettato e sostenuto. Una volta, in un picco di crisi nella gavetta, quando c’erano troppi ‘no’ e non sapevo più che strada prendere, e pensavo che fare questo mestiere fosse impossibile, i miei genitori mi hanno detto: «Abbiamo sempre creduto nel tuo impossibile».
Quali sono i tuoi progetti attuali e futuri?
La tournée con Democracy in America riprenderà ad ottobre, in Corea e a Taiwan. Nel frattempo sto lavorando con due colleghe del cast di Democracy, Maria Vittoria Bellingeri, regista, ed Evelin Facchini, danzatrice, per uno spettacolo sulla morte. Condividerò lavori nati in questi anni di tournée, di vita, di immaginazioni. Saranno raccolti in un libro disegni e testi surreali, tragicomici, favole contemporanee.
Ci sarà un’esposizione dell’istallazione “Un Bel Niente, Nietzsche”: un percorso immersivo che contiene anche un cortometraggio omonimo da me scritto e diretto. Propongo uno spazio dove chi partecipa può accorgersi, sentire e agire in modo personale rispetto a ciò che incontra, diventando performer.
(Foto di copertina di Mau Chi)