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Un BONSAI per il quartiere Giardino di Ferrara: al via il festival di microteatro. Intervista agli ideatori

Pietro Perelli

Nel quartiere Giardino di Ferrara, nei pressi della stazione, domani, sabato 28, e domenica 29 aprile ci sarà la seconda edizione del festival di microteatro BONSAI organizzato da Ferrara Off e Píndoles. I preparativi sono frenetici, ci sono tantissime cose da fare; la struttura ovviamente è già predisposta ma si devono organizzare anche quelli che sembrano piccoli dettagli. Poco prima di iniziare l’intervista, Giulio Costa, Matilde Buzzoni e Simona Canducci di Ferrara Off stanno cercando di far combaciare gli spostamenti dei volontari e capire chi può avere la macchina e chi no. Anche queste, apparentemente piccole, cose, che spesso ci si dimentica, fanno parte dell’aspetto organizzativo di un festival e non lo si può dimenticare.

Foto di Corradino Janigro

Che lavoro c’è dietro all’organizzazione del festival e alla scelta dei partecipanti, l’anno scorso erano 120, quest’anno 180, aumentano esponenzialmente i gruppi che partecipano al bando?

Giulio Costa: È un lavoro enorme, anche perché per fare la selezione non basta guardare i video per i quindici minuti della loro durata. Vanno analizzate le difficoltà anche tecniche perché noi richiediamo esigenze minime proprio per la difficoltà che c’è nell’attuazione in certi luoghi. Ci sono tantissimi aspetti da tenere in considerazione moltiplicati per i centottanta gruppi che hanno partecipato al bando. Poi, in alcuni casi, a fronte di spettacoli che ci hanno particolarmente colpito abbiamo scelto di ospitarli nonostante le difficoltà tecniche e logistiche che comportano.

Simona Canducci: L’anno scorso avevamo anche uno spettacolo che si svolgeva all’interno ad un appartamento; quest’anno non ci sarà, anche per le difficoltà che questa scelta comporta. Magari non è difficile trovare la disponibilità di qualcuno che metta la propria casa al servizio del festival, però va considerato anche il coinvolgimento più o meno volontario di tutto il palazzo che vede il pubblico passare attraverso i proprio spazi. Quindi in questa edizione abbiamo evitato di scontrarci con questa problematica.

 

Un festival di microteatro è una proposta nuova per il territorio italiano. Perché avete compiuto questa scelta?

Giulio C.: Nasce da tante necessità che sono confluite in questo festival. La prima è il dialogo con un’associazione di Barcellona che si occupa di microteatro, Píndoles, con cui già da anni stavamo pensando di fare qualcosa insieme. Inoltre tra i suoi membri c’è una ragazza di Ferrara, Giulia Poltronieri, con la quale sono iniziati i primi contatti. Ci ha spiegato come questo genere funzionasse in Spagna in quanto, grazie alla brevità degli spettacoli, consente grande libertà e sperimentazione alle compagnie oltre a permettere la scoperta di luoghi. Da quando Giulia ci propose di portare in Italia un festival che parlasse di microteatro sono passati tre anni prima di riuscire a realizzare la prima edizione in ottobre dell’anno scorso. Inizialmente non siamo riusciti a dargli una collocazione, nella nostra sede facevamo già un tipo di teatro molto più stabile, andavamo già in vari luoghi della città proponendo letture, non ci sembrava la natura giusta ricalcare luoghi già occupati. La possibilità si è creata quando c’è stato il progetto Giardino Creativo dell’ANCI per riqualificare il quartiere omonimo e, considerando che questa modalità di fare teatro è nata in Argentina durante la crisi, ci è parso affascinante provare a riutilizzare quella stessa pratica in un quartiere che viene vissuto con difficoltà. L’intento sociale, culturale e politico è infatti il motore di questo festival.

Foto di Corradino Janigro

Infatti i luoghi del festival oltre a non essere convenzionali sono molto ricercati…

In Argentina si usavamo molto le case ed è una cosa che si fa spesso anche in Italia. Questo tipo di spettacolo breve e con un numero limitato di spettatori ci dà l’opportunità di poter visitare ampie zone della città con fiumi di persone che si spostano per scoprire luoghi e spettacoli. In questo ci differenziamo dal festival Píndoles che si svolge tutto all’interno di un edificio.

Quali sono le differenze tra questi due festival “fratelli”?

Simona C.: Credo che una delle differenze fondamentali rispetto a Barcellona stia nelle proposte artistiche: lì si trattava principalmente di prosa, pochi attori in scena e una struttura della messa in scena molto “caratterizzata”. Qui invece, già dall’anno scorso – ma soprattutto in questa edizione – abbiamo avuto molte proposte di danza o di performance che vedono l’interazione tra video e attori in scena; ci sono differenze logistiche dovute al luogo in cui lavoriamo; e infine, a Ferrara c’è la volontà di far vivere un quartiere, mentre a Barcellona ciò si limita a un edificio.

Giulio C.: A Barcellona c’è un intento molto artistico e di sostegno alle compagnie. Li i singoli spettacoli posso diventare parte di una piéce che li comprenda tutti e l’organizzazione si fa carico della distribuzione. Questa è una cosa che ci piacerebbe raggiungere però ora siamo molto più concentrati su come entrare in quel quartiere, nei suoi luoghi e come avvicinare le persone che lo vivono.

Matilde Buzzoni: Al festival Píndoles ho avuto la sensazione che per gli attori fosse una palestra, a volte assomigliava ad un’improvvisazione, un modo di allenarsi a scrivere, a recitare, ad andare davanti a un pubblico. Ho notato in generale un modo diverso di vivere il teatro anche da parte del pubblico, ho avuto la sensazione che fosse più accessibile.

Giulio C.: Tra Italia e Spagna c’è uno sviluppo differente del teatro. Qui, anche a causa delle poche risorse disponibili, il teatro di narrazione è diventato un filone importantissimo. Durante la selezione degli spettacoli “gli spagnoli” erano sconcertati dalla grandissima presenza di monologhi tra le proposte ricevute.

Giulia Poltronieri, la ferrarese prima citata, che ha fatto da elemento di congiunzione tra i due paesi, durante la conferenza stampa di presentazione ha rimarcato molto la caratteristica sperimentale di questo tipo di teatro che grazie alla breve durata dà molta libertà agli artisti.

Matilde B.: Questo probabilmente in Italia è più difficile. Si ha spesso l’idea che possa trattarsi di un estratto di uno spettacolo più ampio. Ci sono infatti arrivati molti pezzi di spettacolo ma noi chiediamo qualcosa di compiuto, e così è nel microteatro spagnolo.

 

Un Bonsai.

Giulio C.: una differenza che si nota tra i diversi sviluppi teatrali di Italia e Spagna la notiamo anche nella selezione. Gli organizzatori di Píndoles si fanno inviare un testo scritto, noi un video. Questo dimostra come là venga ricercata la drammaturgia contemporanea scritta, cosa che da noi vive pochissimo negli ultimi anni, c’è moltissima contaminazione con i video e con la danza. In questo può essere affascinante creare un dialogo europeo su come sviluppare un festival contaminato dai differenti sviluppi dei vari territori.

 

In questa edizione si annoverano anche tre spettacoli di realtà non italiane…

Matilde B.: Uno è Trust, performance di danza contemporanea del ConTrust Collective di Dresda; poi abbiamo Selfie, live electronic and visual performance, una collaborazione italo-francese di DOYOUDaDA; infine, Alguine que apague la luz, uno spettacolo di prosa sottotitolato della compagnia spagnola La Canina.

Che direzione prenderà Bonsai?

Giulio C.: È una cosa che ci dirà questa seconda edizione. Rispetto alla prima la volontà era quella di distendersi su più giornate, proporre più spettacoli, trovare nuovi luoghi. Ora quello che stiamo tentando di fare è dialogare con le comunità che vivono il quartiere Giardino. I risultati li vedremo nel week-end. Ci piacerebbe anche un coinvolgimento più a lungo termine, non solo durante i giorni del festival. Ora stiamo entrando in punta di piedi in un quartiere che non è il nostro e ha delle difficoltà che è giusto rispettare per seminare. L’immagine del giardino e del bonsai ci guidano; per ora stiamo facendo una cosa piccola perché diventi un giardino.

Matilde B.: Senza imporci. Stiamo dando fiducia al quartiere. Personalmente, nonostante tutte le opinioni che si sentono in città, ho fiducia.

 

Quando ci si addentra a lavorare in luoghi come questo uno degli aspetti più delicati è proprio il rapporto con chi ci vive, c’è il rischio che i residenti vedano l’operato degli organizzatori come un’imposizione esterna.

 Giulio C.: È vero. “Chi sei tu per fare qualcosa qua? Cosa sai di come vivo io?”. È molto delicato.

Matilde B.: È una qualcosa che teniamo in considerazione nella scelta delle proposte artistiche, dove stiamo andando e come parlare a chi abita un dato luogo.   

 

Come avete pensato di coinvolgere i residenti?

Giulio C.: Fino ad ora, con l’idea di seminare lentamente. Da quest’anno tra i volontari dovrebbero partecipare delle ragazze nigeriane del centro Donna Giustizia con le quali abbiamo in mente di creare un momento di incontro, a luglio, tra danzatori di vari paesi (essendo loro danzatrici). Questi sono alcuni esempi di percorsi. Credo sia un discorso delicato, quello di capire come generare delle pratiche di inclusione e integrazione senza imporle e senza diventare retorici nell’approccio. Ci siamo chiesti tante volte come impattare sul quartiere: farci notare o non farci notare? Alla fine ci siamo resi conto che il modo migliore è esserci. Se pensiamo al tempo degli spettacoli e alle pause di spostamento tra l’uno e l’altro; ci rendiamo conto che le seconde sono superiori alle prime però fa parte di una volontà di passare del tempo insieme.

Simona C.: E questo consente a chi partecipa al festival e non è del quartiere di entrare in contatto con i suoi abitanti.



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