Editoriali Musica

La musica di oggi e un ritardo da colmare

Franco Cappuccio

La notizia più interessante delle ultime ore è senza dubbio quella del premio Pulitzer per la Musica assegnato – la prima volta nella storia per un musicista non afferente alla musica jazz o a quella classica – a Kendrick Lamar per il suo ultimo album “DAMN.” (ma che io estenderei alla portata complessiva della sua ancora giovanissima carriera). Come forse saprete, io non do alcun valore ai premi come esemplificazione del “migliore dell’anno”, ma poiché essi sono uno specchio di una comunità o di una società a cui fanno riferimento, sono interessanti dal punto di vista sociologico e della permeazione culturale. Il premio dato a Lamar, infatti, ha il significato di sdoganare definitivamente, anche negli ambienti della musica colta, il grandissimo lavoro di rinnovamento e di traino che la musica black sta compiendo negli ultimi decenni, miscelandosi con tutti gli generi musicali (il jazz, la world music, l’elettronica, il soul, persino la classica) per creare un suono distintivo che è quello contemporaneo oggi. Tanti sono i musicisti che hanno tracciato – in maniera quasi visionaria – la strada in questi anni, dagli antesignani Herbie Hancock, Donald Byrd o Sun Ra, fino al vero movimento globale degli ultimi anni, guidato da personaggi come Flying Lotus, Frank Ocean o appunto Kendrick Lamar, intersecando musica a concezioni antropologiche e filosofiche intrinseche nella loro poetica artistica. Questo, dicevamo, è stato compreso dai giurati del Pullitzer, che hanno capito come questo rinnovamento sia la corrente artistica capace di riempire palazzetti dalla Finlandia agli Stati Uniti, dal Canada al Belgio, e così via, in un certo senso lanciando l’idea di suono “del contemporaneo”.

Tutto questo dappertutto, tranne che in Italia, dove nonostante il lavoro di alcuni festival – spesso medi, più spesso ancora piccoli – che cercano di riportare il nostro paese sulle rotte del resto del mondo, ci troviamo sempre di più (e tutto questo, nonostante piccoli miglioramenti anno dopo anno) con una frattura evidente tra quello che succede fuori e quello che succede nel nostro paese, con le colpe equamente divise da parte di tutto il settore. C’è una sproporzionata differenza (in termini economici e di pubblico) tra musicisti italiani e musicisti internazionali, segnale di forte provincialità e di mancanza di costruzione di una visione musicale nei confronti del pubblico; le stesse produzioni italiane, perlomeno quelle mainstream, sono scimmiottamenti di stilemi e codici importati costruiti a uso e misura dell’unico target che riesce ancora a far girare numeri considerevoli nel sistema musica, ovvero la fascia 15-25 anni (più vicino al limite inferiore che quello superiore). Il fenomeno della trap italiana, assolutamente incomparabile alla controparte americana per vuotezza di contenuti ed idee, ma costruita unicamente per piacere, così come il nuovo fenomeno dell’it-pop, che ormai produce contenuti sostanzialmente uguali e indistinguibili l’uno dall’altro, se da un lato hanno contribuito a far crollare l’insensata distinzione tra musica “indie” e major italiane, dall’altro hanno reso la frattura con quel che avviene nel resto del mondo sempre più ampia, con il risultato che, a meno che non ci si rivolga al cosiddetto “usato sicuro” di superstar riconosciute da anni se non decenni di carriera, diventa sostanzialmente antieconomico portare nomi che nel resto del mondo riempiono palazzetti a prezzi da grande evento, e che qui possono contare su una base di appassionati decisamente inferiore alla risposta che ci si dovrebbe aspettare. Non è un caso che dei nomi citati su, Frank Ocean non si è mai esibito in Italia, Flying Lotus manca ormai dal 2014, e Kendrick Lamar è passato per Milano agli albori della sua carriera, ma oggi hanno escluso l’Italia dai loro giri (che comprendono tutto il mondo, dal Perù all’Austria, dal Giappone alla Norvegia). Così come non è un caso che in Italia esistono diversi festival meritevoli e in grado di proporre contenuti freschi e nuovi nella fascia media (penso a Jazz Re:Found, o al Locus Festival, per citarne due) e in quella piccola (dal FAT FAT FAT al Dancity, dal Beaches Brew al Gaeta Jazz), ma non esistano festival grandi ed enormi in grado di competere con i principali competitor europei (senza arrivare a mostri sacri come Glastonbury, anche solo a festival come Oya, Lowlands, il Melt o Pukkelpop) e quelli che ci sono in Italia sono un mero contenitore di vecchie glorie (Aerosmith, Iron Maiden, Guns ‘n’ Roses, …) o comunque nomi che fanno pienamente parte della storia della musica degli ultimi decenni (Radiohead, Bjork, ecc.);le novità arrivano al pubblico con anni di ritardo, e questo è un problema strutturale del settore, che si interseca con il ritardo culturale e sociale generale del nostro paese, alla vera base del problema.

Come risolvere? La formazione e l’educazione sono sempre fondamentali in tutti i contesti, e anche questo non fa eccezione. Il lavoro dei piccoli festival è lodevole ed è fondamentale nella permeazione e nella capillarità della musica su tutto il territorio nazionale, ma allo stesso modo manca un evento che possa fungere davvero da stimolo e faro allo stesso tempo. Ho molto apprezzato, l’anno scorso, il lavoro compiuto da Cesare Veronico e da tutto lo staff di Medimex in Puglia, poiché hanno costruito, all’interno di un progetto finanziato e voluto da Regione Puglia e con obiettivi quindi non legati necessariamente a criteri economici, un evento estremamente variegato, con una forte attenzione al posizionamento internazionale (fondamentale anche e soprattutto per l’obiettivo dell’esportazione dei prodotti musicali marchiati Puglia in tutto il mondo) che affianco a un nome assolutamente valido ma di “cassetta” come Iggy Pop (e assolutamente serve anche questo) ha costruito tutto un immaginario musicale di qualità affondando le radici sia nel post-rock (ad esempio gli Slowdive) sia soprattutto verso le sonorità contemporanee, proponendo artisti come Gilles Peterson, gli Jazzanova, Tricky, ecc. ma soprattutto Solange Knowles, che per la prima volta in Italia ha dato a Medimex davvero l’impronta di essere un evento in linea con i suoi contemporanei in tutto il mondo. Quest’anno i primi annunci sono stati più conservativi e in linea con “l’usato sicuro”, sia esso di qualità (i Kraftwerk) o meno (i Placebo), e ripetiamo che nell’equilibrio di un festival sono scelte che hanno un senso, ma aspettiamo il resto del calendario per capire se Medimex possa diventare un punto di riferimento di un rinnovamento culturale in Italia che comunque – presto o tardi – sarà destinato ad avvenire. In questa e nelle prossime edizioni capiremo che esso possa essere o no un punto di riferimento per quanto ci siamo detti: un Kendrick Lamar potrebbe essere, dal punto di vista del brand e dell’immagine, un punto di svolta significativo in grado di essere ricordato come una milestone del rinnovamento musicale in questo paese. Aspettiamo con fiducia.



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