Ballet du Nord – Olivier Dubois // Les memoires d’un seigneur
È la volta del secondo appuntamento con FOG, il festival di teatro contemporaneo promosso dalla Triennale di Milano e dal suo Teatro dell’Arte, e all’interno di quest’ultima si è esibita la compagnia Ballet du Nord di Olivier Dubois con lo spettacolo Les Mémoires d’un Seigneur. Il primo appuntamento che ha aperto la rassegna lo scorso 9 marzo – Lavascar – ha fatto registrare numerosi ingressi ed un alto livello di aspettative intorno alla rassegna, aspettative non disattese dal secondo spettacolo in programma, una perormance corale di teatro-danza ricamata intorno al concetto dell’ascesa al potere e della tanto rovinosa, quanto inevitabile, caduta di un uomo-vate.
All’apertura del sipario un danzatore attraversa la scena tracciando lentamente una diagonale sul palco; le luci ne illuminano il petto come Caravaggio il Battista mentre l’eco di inquietanti voci si accavalla fino a comporre una presenza ossessiva sotto la quale l’uomo si dimena con movimenti nervosi, enfatizzati da un eccellente lavoro di illuminazione. È qui che comincia la storia di un tiranno, un re, un despota, un racconto che si esplicita in capitoli: il tempo – l’ordine del mondo – l’insurrezione – il piccolo teatro del tiranno fino a giungere al canto di guerra ed all’addio.
Dinamismo e staticità si alternano con armonia e naturale consequenzialità narrativa, il pathos liberato dalle concitate scene di battaglia viene veicolato dalla fluidità di una danza bellica in cui nulla è lasciato al caso. La puntualità nelle gesta dell’affronto e della rivalsa è difatti studiata e costruita intorno alla trama della performance e soprattutto alla metrica della musica la quale, pur costituendo quest’ultima la vettrice anticipatoria della narrazione coreutica – e benchè essa riesca a tendere i muscoli degli spettatori seduti in platea nell’attesa di colpi di scena e risoluzioni narrative – pare talvolta prestare il fianco al didascalismo per il suo essere premonitrice di situazioni successive. È pur vero però che la dicotomia esplicitata nella contrapposizione tra “il tiranno” e gli oppressi (che compongono uno schieramento di ben quaranta danzatori non professionisti) rende facilmente intuibile l’andamento della narrazione che avanza tra momenti di vittoria, di resa e di abbandono. Meno scontata invece pare essere l’interpretazione della figura del danzatore protagonista della performance che, sebbene appaia chiara la scollatura tra l’io ed il loro e quindi la definizione di una figura lontana dalla massa e da essa ben distinta, non meno evidente agli occhi dello spettatore risulta essere la solitudine di questi, agitato da un’inquietudine che a tratti lascia leggere un malessere interiore. È l’io contro loro è l’antico combattimento tra il bene ed il male, tra l’individuo e la collettività, ed il tutto è messo in scena in una danza ondivaga che alterna ascesa – scontro – resistenza – tramonto. Il tiranno che combatte contro il popolo è l’uomo che lotta contro i suoi incubi, la sua trincea è un semplice tavolo che è sempre presente sulla scena dall’inizio alla fine della performance. Dapprima posto all’impiedi, come altare verso cui tendono le braccia della folla che consacra il suo sovrano, poi da questa ribaltato in una danza di destituzione del potere, fino a diventare trincea che traccia il limes tra i due poli della contrapposizione, il tavolo diventa infine gabbia che trattiene gli uomini soggiogati dall’assogettazione alla tirannia.
Quando la performance si avvia verso il commiato dal pubblico, le carni dei danzatori continuano a muoversi sotto il ritmo di un respiro incessante ed affannato. È l’approdo e la dipartita. Il tiranno torna solo con se stesso come nella scena iniziale, mentre su uno dei tre teli posti a fondo palco scorrono dei versi dello stesso Dubois, coreografo e padre della mise en scène. I versi di Dubois smagliano la trama del racconto tanto da generare delle fenditure attraverso cui lo spettatore intercetta un messaggio che prima era stato affidato alla danza. È a questo punto che si tocca con mano la dimensione più profonda dello spettacolo che racconta l’abisso dell’essere, concetto che il coreografo francese riesce a mettere in parole per congedarsi dal pubblico con una narrazione fuori dai denti.
I sessanta minuti di performance provocano una particolare vibrazione degli arti, una emozione dettata dalla partecipazione empatica che gli artisti riescono a suscitare nello spettatore e quando sul fondo palco si legge “ in quale Dio potrò intravedere la stessa profondità di un lago?” la suspance si placa dietro la spinta di una risoluzione narrativa, mentre l’emozione fa ancora fatica a lasciare il corpo e le vibrazioni arrivano fino alle dita delle mani.