“Raccontiamo la ricerca di un consenso immediato, facile e protettivo”. Intervista a Dimitri/Canessa, con “Hallo! I’m Jacket!” in scena a Salerno
Arrivano a Salerno Federico Dimitri ed Elisa Canessa, ovvero le due anime della compagnia Dimitri/Canessa, che nel corso della loro breve carriera insieme (fondati nel 2013, con all’attivo tre spettacoli) si sono fatti conoscere e hanno fatto parlare di sé per la bontà artistica dei loro lavori. Il duo si esibirà all’interno della stagione Mutaverso Teatro, di cui “Scene Contemporanee” è storica mediapartner, con la loro creazione più recente e coprodotta dall’Associazione Sosta Palmizi: HALLO! I’M JACKET! ovvero “Il gioco del nulla”, come recita il suo sottotitolo, spettacolo in cui la performance artistica è metaforicamente tradotta con la prestazione sportiva, interpretato da Federico Dimitri e Francesco Manenti.
La loro presenza nel capoluogo di provincia campano è stata l’occasione per scambiare due chiacchiere con Elisa Canessa, partendo proprio dal lavoro che verrà presentato stasera 2 febbraio alle ore 21.00, a Salerno presso l’Auditorium Centro Sociale di via R. Cantarella.
Il vostro percorso vi ha visti prima lavorare sul pittore di inizio ‘900 Bruno Schulz (con rimandi ed echi a Chagall e a Chopin, e comunque ad un certo immaginario definito), poi su opere significative del passato, seppur ri-mediate nella contemporaneità, come Romeo e Giulietta e La conferenza degli uccelli. Da cosa nasce l’esigenza, arrivati a questo punto, di creare uno spettacolo che invece è fortemente ancorato sul contemporaneo e la contemporaneità fin dalle sue premesse di base, come è Hallo! I’m Jacket!?
Per noi ogni spettacolo è una storia a sé stante, e ogni volta lasciamo che i diversi temi ci “muovano” in diverso modo. Questo genera lavori che non risultano necessariamente in continuità tra di loro, almeno ad un livello più superficiale e, direi, estetico. È vero, però, che a differenza dei nostri precedenti lavori, che sono stati dei veri e propri colpi di fulmine con autori o tematiche che ci hanno in quel momento appassionato, Hallo! I’m Jacket! è uno spettacolo che è nato da solo. Con questo intendo dire che è nato di getto, di pancia, è venuto come un grido involontario che sgorgava e al quale abbiamo poi dato una forma e un senso. È stato un momento importante, che ha dato voce a un sentimento di malessere profondo che ci attraversava (e che ci attraversa ancora), e che poneva in primis noi stessi al centro di tutte le critiche. Noi, come artisti/creatori/interpreti inseriti in un certo contesto culturale. Noi come esseri umani…
Lo spettacolo rappresenta una critica del sistema-teatro e, più in generale, del mondo contemporaneo, culturale e non, e in questo senso è fortissimo il rimando alla televisione, ad esempio nel ritmo con cui è frammentato lo spettacolo, in tanti micro-sketch. Centrale è la figura di Jacket, che un po’ è una sorta di Grande Fratello orwelliano. E allora, è più importante per voi il tema del controllo (e quindi ci troviamo di fronte ad una figura che ingabbia i performer e, per traslazione, la società e l’arte) o dell’appiattimento (e quindi di una figura che si fa mediatore del contenuto verso la società, appiattendone il significato vero – e politico – per mostrare soltanto un racconto “rassicurante”)?
Quello dell’appiattimento e della mancanza di contenuti cui purtroppo siamo ormai tutti abituati è senza dubbio il tema principale dello spettacolo. Siamo costantemente alla ricerca di un consenso immediato, facile e protettivo. Allo stesso tempo si è sempre meno disposti a mettersi in gioco, ad affrontare lo sconosciuto. Questo giudizio, peraltro volontariamente banalizzato, è applicabile sia alla figura dell’interprete sia al pubblico. Perché è purtroppo applicabile alla nostra società in generale, della quale facciamo tutti parte. Jacket è una parte di ognuno di noi. Per questo alla fine dello spettacolo è proprio uno degli attori a rivelarsi nel ruolo di Jacket. In realtà, tutto lo spettacolo è fatto per arrivare proprio lì, a quel momento in cui si svela la miseria di ognuno di noi. Per paradosso, però, questo rappresenta anche l’unico momento autenticamente poetico dello spettacolo. Ed è da lì, da questo ritorno alla poesia, che ripartiremo nella nostra prossima produzione.
Il vostro lavoro si rifà in maniera importante al macromondo del cosiddetto “teatro di movimento”, inteso nel senso più ampio, ed è interessante capire come il vostro percorso poetico-artistico sia stato influenzato dalle vostre esperienze formative, pensando ad esempio ad un’istituzione in questo senso come il Teatro Dimitri, la cui esperienza è evidente nel modo in cui alternate linguaggi diversi (del teatro, della danza, della clownerie, del mimo, ecc.), che spesso sono in parte non utilizzati anche nell’ambito dello stesso teatro fisico.
Direi piuttosto il contrario, e cioè che il nostro modo di intendere il teatro e la figura dell’attore ci ha portato a incontrare e studiare forme espressive anche molto lontane tra di loro. Per noi il corpo, inteso nella sua totalità espressiva, è veicolo fondamentale di comunicazione. Nel gesto come nella parola. Ovviamente, aver frequentato così tanti linguaggi diversi ci ha reso estremamente “borderline” tra uno stile e l’altro, una tecnica e l’altra. Ma questo è qualcosa che ci rappresenta intimamente. Non è una volontaria accumulazione, è un linguaggio che sorge spontaneamente sfaccettato.