Melanie De Biasio – Lilies
Il nuovo disco di Melanie De Biasio è come una tela dal fondo nero su cui si stagliano numerose e discrete sfumature di colore. L’artista belga, dopo aver regalato al pubblico Blackened cities, brano pubblicato nel 2016 e dalla durata di ben 25 minuti, si avventura a passo sicuro nel ventre del jazz contaminando l’ambiente con mano sapiente.
Gli incontri più ricorrenti e più morbidi sono quelli che avvengono nei brani in cui il jazz si fonde col blues per non diventare mai amalgama, sia ben chiaro, ma per essere accostati in un’armonica compresenza di generi. La voce dell’artista è al tempo stesso il fil rouge e il principio di tutti i brani, essa anticipa i suoni, disegna le atmosfere, scandisce i ritmi, e benchè ci sia solo un brano, in coda all’album, dove essa si esibisce in un assolo scevro di strumenti,è possibile affermare che l’intera produzione si definisce nell’identità delle corde vocali della cantante belga che sovente la critica tende a collocare nella categoria jazz ma che proprio in questo disco dimostra di poter ( e voler ) sconfinare in territori diversi, in una dinamica di creatività no border, senza mai rinnegare però le proprie origini.
Con questa premessa si apre Lilies, la neonata creatura della De Biasio, e proprio come in un’autentica maternità, l’artista fa suoi tutti i pezzi dell’album coprendoli con sussurri e vocalizzi, intensi nel loro essere rarefatti. La sensazione è quindi quella di trovarsi nella dimensione più intima della creatività dove non c’è nulla che abbia bisogno di essere urlato o semplicemente scandito ad alta voce. Il presupposto è invece quello di trovarsi dinanzi ad un’artista intensa e profonda nelle sue capacità creative e di ricerca, se n’è accorta una vasta fetta della critica ma anche alcuni colleghi del calibro di Phillip Selway dei Radiohead che ha espresso espliciti apprezzamenti nei confronti dell’artista. Come si può, d’altra parte, non apprezzare un lavoro che si apre con una traccia jazz/blues condita da una fine elettronica di fondo.
Parliamo appunto della opentrack Afro Blue, dove la voce delicata della cantante ammalia come cachemire sul collo fino all’incontro con un piano dall’incedere deciso ed un flauto traverso che chiude con delicatezza quasi imprìercettibile la prima delle otto tracce. Quella che segue è invece la titletrack Lilies, un blues più nebbioso e sospeso nel suo fare malinconico a tratti turbato. In Brother è un insieme di archi pizzicati, che salta tra le parole vellutate della De Biasio, a definire l’atmosfera di sospensione in cui ci troviamo. In Gold Junkies invece abbiamo una variazione di tema, e l’atmosfera soporifera delle prime quattro tracce incontra una piacevole perturbazione che si rivela in un insolito rhytm and blues definito da un accattivante beat ed accompagnato da un riverbero appena sussurrato, mentre in Let me love you la morbida voce dell’artista si lascia accompagnare da una discreta voce maschile, da un altrettanto discreto piano e da un accenno di percussioni che sul finire ammicca al tribe. Così l’album scivola verso la fine, nella certezza che, come la Circe Ulisse, il disco abbia letteralmente ammaliato l’ascoltatore ed arriva ad un punto in cui l’artista sfida se stessa, liberando la scena musicale da qualsiasi altro tipo di strumento, lasciando solo uno schiocco di dita a scandire il ritmo, mentre con fare trascinato (e ci piace immaginare ad occhi chiusi) la sua voce produce un suono carezzevole e invitante.
Ci sono brani che agganciano l’ascoltatore, come Your freedom is the end of me, più melodica ma altrettanto intensa e delicata che avvolge completamente in un’emozione di quasi quattro minuti. E si incontrano poi pezzi che incantano e isolano con un sussuro dietro l’orecchio come Sitting in the stairwell dove la voce di Melanie si staglia in modo netto sulla musica di fondo tanto da lasciar avvertire perfino le consonanti labiali, come se l’artista si trovasse a dieci centimetri da chi l’ascolta. Solo l’immancabile piano e qualche distorsione biascicata tengono testa alla cantante che, a sua volta, concentra la parte più intima dell’intero album in And my heart goes on, una confessione cantata sul battito del cuore che al ritmo di un elettrocardiogramma apre e chiude l’ultimo pezzo del disco. Bisogna dire che quest’ultima traccia, esplicitata nella sua profondità e con un corno che fa da eco alle parole della De Biasio risulta quasi inquietante, ma essa è al tempo stesso la degna conclusione di un lavoro eseguito “a piedi nudi”, dove il contatto tra musica ed emozione è a dir poco epidermico e lascia addosso una sensazione di fascino e densità.
Lilies è dunque un disco che si ascolta a pori aperti e si trattiene sotto pelle. Potesse sempre essere così.