“MalComune”: la difficoltà di vivere insieme nel 51° autodramma del Teatro Povero di Monticchiello
Il Teatro Povero del piccolo borgo medievale di Monticchiello (unica frazione di Pienza, attualmente di 202 abitanti) non smette di sorprendere: eppure lo fa da ben 51 anni con la tradizione ormai consolidata ed incredibilmente longeva di affrontare problemi cruciali per la comunità in chiave spesso autoironica, nel segno di una commedia che affonda le sue radici nella cultura contadina. Qui, ogni anno, si rinnova l’esperimento di una drammaturgia partecipata dall’intero paese (la definizione di «autodramma» è di Giorgio Strehler); gli abitanti, riunendosi in assemblea durante l’anno, elaborano idee e temi che andranno a far parte dello spettacolo che successivamente loro stessi porteranno in scena, o per meglio dire in piazza. È infatti la piazza, luogo di aggregazione per eccellenza, il luogo chiave del Teatro Povero. Il nome di Andrea Cresti, da molti anni regista e punto di riferimento della comunità, non compare nemmeno sul copione, a ribadire la dimensione collettiva dell’operazione.
MalComune, spettacolo di questo 2017, replicato per l’ultima volta lo scorso lunedì 14 agosto, sorprende proprio perché pur rielaborando un tema ricorrente nelle commedie del Teatro Povero (la difficoltà di ricostituire un senso di comunità ormai scomparso), lo porta alle estreme conseguenze, arrivando a mettere in discussione il senso e la funzione del teatro stesso. Il dilemma da cui muove prende tuttavia spunto da una situazione molto specifica e particolarmente temuta dalle piccole frazioni come Monticchiello: il percorso di cosiddetta “semplificazione amministrativa” che decreta la scomparsa dei Comuni con popolazione inferiore a 5000 abitanti mediante fusione con il comune limitrofo. Il riferimento palese è alla legge n. 56 del 2014 (cosiddetta “legge Delrio”), ultima tappa di un mai esaurito conflitto di attribuzione che riassegna allo Stato la competenza sulle fusioni per incorporazione (ribadita dalla sentenza n. 50/2015 della Corte costituzionale). Nella realtà tale legge – sintetizzando – rinnova e aumenta gli incentivi per i Comuni che concordano spontaneamente una proposta di fusione, fermo restando che anche in caso di rifiuto – dopo un periodo di tempo prestabilito – la fusione avverrà comunque.
Nello spettacolo la legge e le sue conseguenze, per quanto attuali, fungono in effetti da pretesto (un MacGuffin, diremmo se fossimo in ambito cinematografico) per sviscerare un tema molto più ampio: la difficoltà di vivere insieme, cioè di trasporre il concetto astratto di comunità in una cooperazione reale e condivisa. Nel momento in cui – nella finzione – Monticchiello rischia di cessare di esistere come Comune, sembra appunto riscoprire la sfida di esistere come comunità, discutendo collettivamente la questione se sia vantaggioso o meno accettare la fusione e interrogandosi sulla propria stessa identità. Il dramma è strutturato in tre atti la cui collocazione cronologica alterna passato e presente, creando un ponte generazionale; presente nel primo, passato (1950) nel secondo e di nuovo presente nel terzo.
Lo spazio scenico, minimale e non ben identificato, è occupato da cubi neutri che fungeranno di volta in volta da sedili, tavoli da lavoro, ostacoli all’interazione tra i personaggi; gli unici oggetti riconoscibili – alcuni pezzi di trattore, disseminati qua e là – anticipano l’importanza della dimensione agricola e contadina. A fare da sfondo, nel semibuio, la scenografia ricrea il profilo di colline simili a quelle circostanti. Nel silenzio che segue l’abbassamento delle luci sul pubblico e precede l’accensione delle luci di palco, gli spettatori rimasti al buio si trovano davanti il meraviglioso cielo stellato della Val D’Orcia, scenario naturale incastonato dagli edifici che delimitano piazza della Commenda e che nel terzo atto – come vedremo – acquisterà una precisa funzione scenografica e drammaturgica. Ma andiamo con ordine.
Il primo atto si apre presentando Marco, giovane disoccupato e fidanzato con una ragazza di nome Giulia (incinta di tre gemelli), mentre cerca di riparare un vecchio trattore Fiat/70, acquistato mezzo secolo prima da suo nonno Quinto. Presto Marco e Giulia si trovano al centro di un problema paradossale: rischiando i loro due Comuni di provenienza di scomparire per una manciata di abitanti (entrambi sono appena al di sotto della soglia minima imposta dalla legge), l’unica surreale soluzione appare quella di scorporare la famiglia nascente (mettendo Marco e un figlio in un Comune, Giulia e due figli nell’altro) in modo da scongiurare la fusione. Il tutto viene discusso in una sorta di assemblea pubblica, dove pur in chiave comica e attraverso dialoghi grotteschi («Chiediamo una doppia residenza per ognuno di noi!»; «Non credo sia possibile…»; «Due passaporti li danno però!») emerge il ritratto di due comunità inutilmente ostili, divise anche al proprio interno e soprattutto unite da una certa inconcludenza: tutti rifiutano l’idea della fusione, ma nessuno sa spiegare con precisione il perché.
Marco cerca allora ispirazione ripensando alle vicende di suo nonno Quinto, che cinquant’anni prima fu protagonista del tentativo di creare una cooperativa agricola in gestione con gli altri mezzadri. La riunione tra i contadini nel paese non ancora spopolato è raccontata nel secondo atto, certamente il più efficace e commovente in quanto riesce a restituire realisticamente l’atmosfera di quel senso di comunità contadina che nel presente appare inevitabilmente perduto. Ci riesce con la forza evocativa di nomi antichi (Beppino, Annina, Zigliero, Tiberino, Noviglio), con l’uso delle forme dialettali, ma soprattutto tramite il peculiare realismo degli attori non professionisti e contadini, certamente i più adatti a rappresentare sé stessi e la propria sprezzante solidarietà.
La trattativa tra i mezzadri è però destinata al fallimento: nonostante i tentativi di trovare un accordo e la presenza di un paciere, non si trova l’intesa sul trattore da acquistare. Quinto si impunta sul prendere un Fiat/70 (che infine acquisterà: è lo stesso che nel presente il nipote Marco cerca di riparare), mentre Zigliero vorrebbe un Landini; a causa di questo futile disaccordo la cooperativa muore sul nascere. Risulta evidente, tanto nel primo quanto nel secondo atto, che nel fallimento dell’esperienza collettiva pesa soprattutto la diffidenza (tipicamente contadina) verso il nuovo, unita al male atavico e tutto italiano di dividersi in fazioni che sembrano opporsi per partito preso, senza mai riuscire a mettersi d’accordo. Ma è proprio nella conclusione che la scrittura di Andrea Cresti scarta e disorienta, guidandoci verso un finale amaro e per nulla consolatorio.
Lo spettatore, al pari del protagonista Marco, emerge infatti dal secondo atto con l’illusione che l’immersione nel passato possa essere servita a ritrovare la soluzione del problema; ne ha invece solo evidenziato le radici profonde e inestricabili. Il terzo atto, didascalico e ridondante, complica ulteriormente i piani di lettura senza risolvere la questione di partenza, chiarendo comunque le dinamiche di un nuovo fallimento. Marco, rafforzato nel suo idealismo, pronuncia una lunga invettiva scagliandosi contro la passività di chi è disposto ad accettare uno stato di cose mortificante e insopportabile. Una nuova comunità, coesa e proiettata verso le sfide del futuro, per lui è possibile: «[…] Credo nei sogni e credo nel futuro. E la tecnologia ci permette di sognare ad occhi aperti, anche il futuro, e vederne le immagini, qui… davanti a noi… dimenticando le formule e i numeri. […] ad un tratto […] sortirà l’immagine virtuale ma concreta del nostro futuro di esseri umani».
Mentre Marco parla – e sogna – in prossimità del pubblico, il dramma sfocia effettivamente in una dimensione onirica: sulle colline che fanno da sfondo compaiono le sagome illuminate di numerosi borghi medievali (presumibilmente ricalcate su quelle di Monticchiello, Pienza, Montalcino, Castiglione D’Orcia, ecc.), cui Marco attribuisce una ricchezza storica e culturale ancora viva. Da questa ricchezza si può ancora ripartire? Alle spalle di Marco si accumulano a questo punto varie comparse, con accanto altrettanti bagagli, a formare l’immagine di un popolo nomade che avanza verso gli spettatori, come un monito. Ironicamente uno dei riferimenti pittorici più abusati quando si parla di rivalsa del mondo contadino – Il quarto Stato di Pellizza da Volpedo – è qui evocato in funzione puramente antagonistica. Il popolo in cammino è infatti guidato da una Voce (così definita nel copione) che, disillusa e pessimista, si incarica di scoraggiare Marco, tarpandogli le ali e rimarcando il fatto che l’economia ha piegato la ricchezza culturale di quei borghi alle logiche del marketing e del turismo: «[…] Illusioni! La realtà è che si sono scordati della loro bellezza. […] La forza di quel sogno io non la vedo più. […] La creatura di un tempo assomiglia ormai alla pubblicità, stanca, di qualcosa da vendere! Non c’è amore! …Solo mercato, mercato, mercato e basta».
Marco però non desiste e trasporta al centro della scena i vari pezzi del trattore, convinto di poterlo far ripartire. Nel suo sogno il trattore diventa una sorta di “urna elettorale” dove ogni compaesano, partendo dai diversi borghi, dovrà recarsi per depositare un pugno di terra e costituire così la comunità del futuro, che sintetizzerà le diversità locali in una grande, vera collettività che potrà opporsi concretamente ai diktat provenienti dall’alto: « […] Basta raccogliere un manciato di terra dal cuore di ciascuno di quei punti luminosi, che non sono più i punti cardinali del nostro piccolo mondo… Perché sono diventati patrimonio dell’umanità.»
Dapprima l’impresa sembra riuscire, e dall’urna/trattore emerge un magico raggio di luce che si proietta verso il cielo, come a stabilire una connessione con le anime del passato. I paesani cessano di parlare di leggi e numeri che non capiscono e a cui non appartengono, ritrovando la memoria e i nomi di un mondo ormai perduto: «[…] Quei campanili là… Li riconosco. […] È la mia… la mia famiglia! Non vedi? […] No, no, no…è la mia famiglia questa che abbiamo davanti! Monaldo! La nonna Esterina… Fabiola… Siamo insieme… Stanno tornando tutti… Finalmente!» Anche nel sogno, purtroppo, prevale l’individualismo: ogni paesano ripete i nomi dei propri cari, riscopre solo i propri ricordi, senza una prospettiva davvero comune.
L’illusione si dissolve presto: il trattore improvvisamente si guasta e scoppia, il raggio di luce scompare e con esso il sogno, tra le risate ciniche della Voce. Alcuni paesani si affannano a raccogliere frammenti dell’urna, come a tentare di salvare la memoria che si era per breve tempo ricomposta. Mentre cala il buio, si odono inquietanti le note dell’Inno alla gioia, simbolo forse del trionfo della Bundesbank sulla gestione italiana dell’economia (e di conseguenza dei beni culturali), o più genericamente degli interessi economici e sovranazionali sulle identità locali.
MalComune, pur mantenendo nei primi due atti toni da commedia, si conclude dunque con un finale a dir poco inquietante, che fa riflettere non solo sul tema specificamente affrontato – la difficoltà di ricostituire una comunità – ma anche sul ruolo stesso del teatro, sulle sue possibilità e sui suoi limiti. Se infatti il secondo atto mostra la possibilità di far rivivere il mondo contadino del secolo scorso (rappresentandolo con l’esattezza lucida di chi l’ha vissuto), il terzo atto la disinnesca impietosamente, mostrando che il trattore assemblato da Marco è ormai troppo vecchio, non può funzionare; in altre parole, l’effetto dolcificante della “nostalgia” (che spazia dalle arti sceniche al folklore, con le rievocazioni storiche delle antiche trebbiature e le fiere popolari, per non parlare delle incursioni del cinema italiano da Olmi a Bertolucci) non paga. Il Teatro Povero di Monticchiello, che rinnova ogni anno il proprio micro-esperimento di comunità, ci fa riscoprire una forma drammaturgica che pone problemi estremamente complessi senza offrire il miraggio di soluzioni o “semplificazioni”, suggerendo inoltre che per risolvere i mali comuni (o quelli del Comune: il titolo si presta a più letture) non basta recuperare la memoria, non basta ricostruire il senso di un’identità: urge una prospettiva generazionale nuova, una collettività diversa e consapevole, o la seconda parte del proverbio – il traguardo triste, ma pur sempre tale, del “mezzo gaudio” – non giungerà mai.