Slowdive – Slowdive
Ri-partire. Ri-cominciare. Ri-creare.
A distanza di 22 anni, gli Slowdive ri-tornano in studio di registrazione, dando alla luce il loro quarto disco, intitolato semplicemente Slowdive. Ne è passata di acqua sotto i ponti: gli anni ’90 (il loro terzo album, Pygmalion, risale al 1995) sono diventati gli anni 2000 e poi 2.0, la musica è andata avanti nonostante la loro assenza (o presenza muta, dato che i fan hanno continuato ad ascoltare i dischi che li avevano consacrati co-fondatori dello shoegaze assieme ai My Bloody Valentine). La cosa che sorprende nell’immediato è che qui il tempo – quasi sempre un nemico spietato – non intacca l’identità dei cinque artisti britannici (formazione completa: Rachel Goswell: voce, chitarra, tamburello; Neil Halstead: voce, chitarra, tastiera; Christian Savill: chitarra; Nick Chaplin: basso; Simon Scott: batteria). Questa è una band naturalmente ed eccezionalmente anacronistica, fuori tempo, o meglio, in ogni tempo (a seconda delle prospettive). Infatti nella traccia che apre il disco, Slomo, cantano “we’re younger than clouds”, quasi a voler sottintendere la rivendicazione di una (latente?) giovinezza, nonostante non siano più gli stessi di un ventennio fa. Emerge anche la consapevolezza di praticare uno stile musicale tuttora compatto e d’impatto, lo stesso degli esordi (Just for a day, 1991), poiché il loro essere visionari torna in modo prepotente anche in questo disco. Slomo, infatti, è un pezzo che arriva da lontano, che cresce di gradazione e di tonalità, riecheggiando il passato al quale il presente naturalmente guarda. Anche la tematica esiste a prescindere dal tempo: l’amore, corrisposto in alcuni casi, da preservare in altri, che stenta a decollare in altri ancora, è coralmente coronato dal duo Goswell/Halstead. Sugar For The Pill, il singolo che ha anticipato l’uscita dell’album, è un quadro picaresco di rara bellezza, con feedback e riverberi che incontrano (senza dissonanze) il pop di Souvlaki (1993), bruciante nel suo “our love has never known the way”, quasi a ridimensionare l’aura onirica della parte iniziale. Meno convincenti appaiono Star Roving (il sound sembra rimandare a Just Like Heaven dei The Cure) e Don’t Know Why, che non aggiungono né sottraggono nulla a un disco che torna “luminoso” nella parte centrale: Everyone Knows è un pezzo elettropop, in No Longer Making Time (noise rock), gli Slowdive sono “alla ricerca del tempo perduto” (“Kathy, don’t wait too long” è il loro monito e Kathy potremmo essere tutti noi); con Go Get It approdano alla purezza dello shoegaze e dello sperimentalismo (personalmente risultando meno emozionanti del passato). In chiusura piazzano un pezzo ramingo, minimalista ed etereo, Falling Ashes, in cui padroneggia un pianoforte, sul quale sono modulate le voci perfettamente armoniche di Goswell/Halstead che ripetono all’unisono “thinking about love”.
Questo disco funziona perché “è” senza la pretesa di essere. Si lascia ascoltare senza filtri e senza sovra-scritture, scivola via con la stessa nonchalance con cui si ingerisce una pillola, la stessa menzionata in Sugar For The Pill; d’altronde, “è il solo modo in cui vanno le cose”, cantano gli stessi Slowdive.