Laura Marling – Semper Femina
Il mondo classico è il punto di partenza del sesto album della cantautrice britannica Laura Marling, talento prodigiosissimo nonostante la giovane età (27 anni compiuti da poco). La Marling, infatti, approda alla letteratura latina, innamorandosi di un verso dell’Eneide di Virgilio – varium et mutabile semper femina est – dedicato al personaggio femminile più importante del poema, Didone che, secondo il poeta, appare versatile e mutevole (nell’animo). La musicista inglese è talmente persuasa dall’idea che questi due aspetti caratterizzino in modo rappresentativo l’universo femminile, da decidere di tatuare la locuzione latina sulla gamba, senonché, per ragioni di ‘spazio’, è costretta a ‘ripiegare’ sul più immediato Semper Femina, che diventa, per estensione, anche il titolo di un disco ambizioso, raffinato e, appunto, mutabile, al pari del genere femminile. L’abilità di Marling, che aveva già estasiato critica e pubblico con Once I Was An Eagle (2013) e confermato il suo talento con Short Movie (2015), è quella di saper raccontare, in nove canzoni cangianti e peculiari, l’indole multiforme del complesso ego femminile. A tal proposito illuminanti saranno gli studi sulla scrittrice e psicoanalista tedesca Lou Andreas-Salomé, emblema della donna che sfrutta appieno la propria creatività (aveva infatti ‘sfaldato’ la teoria freudiana dell’invidia del pene, sostenendo che la sessualità femminile fosse essenzialmente ‘interna’ e ‘perpetua’). Nel mondo della musica non è la prima volta che si dà voce e corpo all’universo femminile: senza scavare troppo nel passato, nel loro ultimo disco, Tales Of Us (2013), i Goldfrapp avevano raccontato le storie di diversi personaggi i cui rispettivi nomi rimandavano ad ognuna delle tracce del disco; molti di essi erano di genere femminile, o potenzialmente desiderosi di diventare tali (è il caso di ‘Annabel’, bambino intersessuale che può permettersi di essere bambina solo in sogno).
In tempi di emancipazione, talvolta ‘gridata’ in modo finanche stucchevole (non è questo il caso), il suddetto album è destinato – azzardo – a diventare un simbolo di questi anni (e una pietra miliare per i futuri decenni), complice anche lo scopo prefissato dall’artista. Infatti, come afferma la stessa Laura Marling nella presentazione del disco, l’idea di realizzare un’opera del genere (e di genere) nasce non tanto per dare una risposta al pur imperante maschilismo, quanto dal bisogno di tracciare una prospettiva femminile della cosiddetta femina.
Il quadro tinteggiato è straordinariamente mutevole, tanto nelle parole, quanto nelle sonorità. Queste ultime contemplano il fingerstyle (alternato al suono di candidi violini) di The Valley, un pezzo nel quale l’artista, cantando di un’amicizia femminile perduta per sempre, immagina che l’eterea figura dell’amica si sia smarrita in una valle (she’s down there in the valley/I know she wanders there/I can see her golden hair//lei è laggiù nella valle/so che si aggira lì/riesco a vedere i suoi capelli d’oro). La grinta del soul blues emerge, invece, in Wild Fire, che affronta il tema della creatività femminile (she keeps a pen behind her ear/she’s gonna write a book someday//lei tiene una penna dietro l’orecchio/scriverà un libro un giorno); la folktronica unitamente ad un timbro vocalico che rimanda sempre più a Joni Mitchell è l’elemento prevalente di Don’t Pass Me By, la storia di un legame che ha assunto una connotazione irreversibile e disperata (I can’t get you off of my mind/can you love me if I put up a fight?//non riesco a toglierti dalla testa/mi ami anche se ho messo su una lotta?). La sperimentazione musicale – mai viziosa – si arresta nella parte centrale del disco: Always This Way ha il sound degli esordi (si ricorda anche che, prima della svolta puramente folk, Laura Marling aveva collaborato alla realizzazione dell’album di debutto dei Noah And The Wale, di cui faceva parte anche il suo ex ragazzo, nonché cantante/chitarrista della band). Wilde Once, che evoca atmosfere familiari e bucoliche grazie al fingerpicking, coglie un altro aspetto della femina, ossia la sua paradossale mascolinità: “da piccola ero un maschiaccio, ero solita arrampicarmi sugli alberi” – dice la Marling in un’intervista – ma it’s something you cant’explain, chiosa nel pezzo. Eppure bisogna aspettare la parte finale del disco per ascoltarne il manifesto: Nouel, delicatamente ed essenzialmente acustica, è la a semper femina per antonomasia, fickle and changeable, musa per un milione di artisti, languida e sensuale nel suo gettarsi nuda a letto, quasi a riprodurre L’origine del mondo di Courbet (she lays herself across the bed/the origine du monde). Nella chiusa, intimista e grintosa, è condensata tutta la bellezza di questo disco: in Nothing, Not Nearly si respirano echi dylaniani per il talking blues (dal quale si intuisce anche un’inflessione non più puramente inglese, complice il trasferimento dell’artista a Los Angeles, dove, con tiepidi successi, aveva insegnato yoga, interrompendo momentaneamente la sua attività musicale); ma anche riverberi à-la Neil Young, per l’assolo di chitarra elettrica sul finale. Le parole, sferzanti, sono un invito a cogliere l’attimo (per restare in tema di letteratura latina) perseguendo l’amore, inteso come scopo ultimo dell’esistenza: we’ve got not long, you know, to bask in the afterglow/once it’s gone, it’s gone/nothing matters more than love//non abbiamo molto tempo, si sa, per crogiolarci nel bagliore/una volta che è andato, è andato/niente conta più dell’amore. In questa femina si concentra tutta l’umanità possibile; ogni altra parola sembra superflua.