Paolo Benvegnù – H3+
La ricerca di se stessi passa attraverso l’altro da sé, il circostante, l’ultraterreno. Grazie a questi tre elementi Paolo Benvegnù riesce a “tracciare” musicalmente l’invisibilità del suo percorso interiore. E infinite volte ho trasvolato in mezzo alle correnti, abbandonandomi al trasporto emozionale (No drink, no food), canta nella chiusa di H3+, il suo quinto lavoro in studio che forma la cosiddetta ‘trilogia di H’ e che, per omofonia, (mi) rimanda alla letteratura sopraffina (La trilogia della città di ‘K’ è un celebre romanzo di Ágota Kristóf). Di fatto la ‘H’ rappresenta l’anello di congiunzione tra Hermann (2011), EartH Hotel (2014) ed ora H3+, simbolo della particella di idrogeno di cui è composto gran parte dell’universo conosciuto, sparsa nelle varie regioni ‘vuote’ che separano le stelle e – per estensione – allegoria di spazi intoccabili e insondabili che, tuttavia, la mente prova a toccare e a sondare.
La ‘violazione’ dell’apparentemente inviolabile si è connotata di fragilità emotiva sin dai tempi degli Scisma (storica band di Benvegnù), si è personalizzata con il capolavoro Piccoli Fragilissimi Film (2004), si è affinata nel 2008 con Le Labbra, con cui ‘i’ Benvegnù, come li definisce affettuosamente il frontman (formazione attuale: Luca Baldini, basso; Andrea Franchi, batteria, chitarre, synth, pianoforte; Marco Lazzeri, piano, synth; Ciro Fiorucci, batterie acustiche ed elettroniche; Michele Pazzaglia, tecnico del suono), hanno saputo ritagliarsi uno spazio autenticamente loro nel panorama indie-rock e nel cantautorato di maniera.
Nello stesso tempo, però, c’è un (non greve) distacco dal passato: l’intro del disco (costellato di 10 intensissime tracce), ne è la prova: “A nuova vita” (Victor Neuer) esordisce Benvegnù, consapevole di aver maturato una meta, ma – attenzione – non la certezza della stessa. Si pone costantemente in discussione, non pronuncia tesi, soltanto ipotesi che abbiano alla base una strenua e faticosa ricerca: E cerco ciò che è intatto, astratto, sommerso, sconfitto, diverso//che di certo non ho visto ancora niente (Macchine), tentando anche l’incontro (e lo scontro) con l’altrove, avvicinandosi all’inavvicinabile con Goodbye Planet Hearth, emblematica sin dal titolo, ancor di più nelle parole “Il mio corpo è un’astronave” e da cui (tanto per non farsi mancare nulla) si può evincere una forma tributo a David Bowie. L’ineffabile si assottiglia nella parte centrale del disco, quando subentra un “tu” con cui la solitudine dell’io comincia a dialogare: prima con Olovisione in parte terza (se tu sei, allora sono anch’io) e poi con Se questo sono io (che ogni sogno sia il tuo, che il tuo sogno sia io). La linearità del percorso volge gradualmente al termine: sulle note ammalianti del sassofono di Steven Brown dei Tuxedomoon, tutto è luce (Slow Parsec Slow), il sole esplode, tutto rinasce (Astrobar Sinatra) e infine, grazie alla dolcezza dei violini e delle voci (Benvegnù e Baldini all’unisono) si rivendica il bisogno della comprensione, intesa letteralmente come il prendere con sé l’altro poiché da soli non sappiamo dove andare (No drink, no food). Con questo disco l’artista milanese conferma la necessità di indagare e di indagarsi, da sempre punti focali della sua attività musicale: tiepido il mattino, cercati (Superstiti, 500, 2009); cos’è la vita se non cercarsi sempre? (Orlando, Hearth Hotel), ma soprattutto smussa le spigolosità del passato che si distendono in melodie più morbide e orecchiabili, non senza, per questo, rinunciare ad una forte componente emozionale. Ascolto immancabile del 2017.