Arti Performative Focus

Il corpo dell’attore: Eugenio Barba al FLIPT 2017

Chiara Nicolanti

Chiara Nicolanti spiega, filtrando le parole attraverso la sua esperienza diretta, che cos’è stata la prima parte del FLIPT 2017 di Fara in Sabina, il Festival Laboratorio Internazionale di Pratiche Teatrali organizzato dal Teatro Potlach in collaborazione con I.S.T.A. International School of Theatre Anthropology diretta da Eugenio Barba

Il 23 giugno si è aperto il FLIPT, il Festival Laboratorio Internazionale di Pratiche Teatrali. Un appuntamento annuale che vede compagnie provenienti da tutto il mondo riunirsi in un paesino della provincia romana, Fara in Sabina, in nome della ricerca, della sperimentazione e dello studio delle pratiche di palcoscenico.

L’edizione di quest’anno si è aperta con la presentazione di un lavoro la cui preparazione si è protratta per più di trent’anni, il libro I cinque continenti del teatro, di Nicola Savarese ed Eugenio Barba.

Il Teatro Potlach, con la sua quarantennale esperienza, ha la sua base operativa in un ex convento, da cui ha ricavato sale prova, uffici amministrativi, cucina, dormitori, una sala da pranzo, giardini in cui provare a cielo aperto e naturalmente, piccolo teatri studio. La presentazione si è svolta al fresco di quella che una volta era una stalla, tra il fermento che sempre accompagna l’inizio di un festival e quella sorta di ansia da prestazione che si sente ogni volta che si incontrano personaggi di un certo calibro. Barba e Savarese hanno scherzato, si sono rimbalzati una palla leggera, sfuggente, parlando del lavoro dell’attore e di quello di tutti i tecnici, ex servitori dei secoli scorsi, che negli anni, sera dopo sera, hanno reso possibile la magia, la favola del teatro.

E la magia poi si è manifestata, attraverso la voce, il corpo e le emozioni di Julia Varley, grazie alle sue farfalle, esseri di merletto che prendono vita dalla sua lunga parrucca di capelli bianchi, dalla sua voce di bambina, dai suoi passi spezzati. Farfalle dalle ali strappate, farfalle gioiose, sibilanti, farfalle che volano all’indietro o danzano nel fuoco. Farfalle e fiori, in quel cerchio magico che tanto sa ancora raccontare di noi stessi e di questo gioco tra attore e personaggio che non smette di stupirci, commuoverci, straziarci. Le Farfalle di Doña Musica, “spettacolo sull’identità”, ha raccontato a quel grumo di spettatori, di studiosi del teatro, giovani artisti e studenti, la bramosia, l’amore indicibile e il timore per quel palcoscenico.

Ed ecco che le luci si accendono. Ora tocca a loro, a quelli che per tre giorni saranno allievi di Eugenio Barba. Si consuma una cena veloce, ma il cuore e la testa sono rimasti in quella sala. Tra poco il maestro chiederà ai diciassette partecipanti attivi di mostrare il loro pezzo, la scena che sarà lo spunto, il materiale su cui lavorare. In particolare, chiede loro di mostrargli la partitura del pezzo, e per far capire di cosa parla manda in scena una sua attrice, violinista e compositrice, Elena Floris a suonare il suo strumento.

Dopo di lei gli allievi si susseguono, scena dopo scena.

Le indicazioni preliminari alla preparazione del testo sono le seguenti: «una scena di tre minuti dal titolo Vorrei darti conto dei miei errori, estratta da un’opera di Shakespeare, contenente una canzone e l’uso di un oggetto presente nella casa in cui abitano».

Eugenio Barba osserva, poi invita di nuovo a riflettere sulla struttura della scena presentata, esorta ogni allievo a frammentare mentalmente, durante la notte, la propria performance in singole azioni. Da questa partitura, da questo insieme di gesti fisici, partirà l’esplorazione delle possibilità insite e nascoste nella rappresentazione.

Questo laboratorio s’intitola “La struttura drammatica: esercizi di montaggio”. Pensare l’attore come un essere unitario, ma retto da un insieme di sistemi, proprio come il nostro corpo biologico, è la chiave. E proprio dalla biologia il Maestro dell’Odin Teatret trae molti dei suoi esempi, per aiutare l’attore a scomporre in livelli ogni gesto: azione fisica, voce, pensiero. E ancora, spinge a domandarsi: all’interno di ogni gesto fisico quante possibilità si celano? Di nuovo, il legame con la musica: ritmo, melodia, armonia, timbro, dinamica. Ogni gesto può essere esplorato, separatamente da quello che segue, dimenticando il testo da cui è nato, permettendo all’attore di liberarsi dalla schiavitù del senso della parola, per poter tornare a parlare al 98% della nostra intelligenza, che non è razionale. Eugenio parla del sapere del corpo, di intelligenza e sensibilità motoria, per cui ogni essere umano sa leggere il linguaggio del corpo dell’altro, prevedendone intenzioni e sensazioni. E allora per toccare la sensibilità del pubblico si potrebbe partire proprio da questo sapere comune, per sorprenderlo, stravolgerlo; per farlo bisogna andare all’origine del movimento, al momento in cui esso è ancora solo pensato dal corpo, non agito. Ne La canoa di carta si leggeva: «Le ginocchia, appena piegate, contengono il sats, l’impulso di un’azione che ancora si ignora e che può andare in qualsiasi direzione: saltare, accovacciarsi, fare un passo indietro o di lato, oppure sollevare un peso».

Riconoscere quel momento significa possedere la scena, come un musicista possiede la musica che produce attraverso il suo strumento. Dalla suddivisione del corpo dell’attore (che è il suo strumento) nascono ancora ulteriori possibilità di esplorazione. «Fate tutta la partitura solo con i piedi. Ora solo con le mani. Solo con gli occhi». I gesti si svuotano di peso, diventano energia. Diventano acqua, e vento, e roccia. E gli attori si trasformano in Medea, Amleto, Attila e Ofelia. E un loro piede si trasforma in Medea, Amleto, Attila e Ofelia. È un gioco infinito, un gioco serio.

Tra una sessione e l’altra Eugenio parla, non giudica mai, ma continua a gettare spunti di riflessione. Pensa a voce alta, esprime ciò che pensava e crede e ciò che ancora è un pensiero in formazione nella sua mente, e nel corpo di Julia, chiamata per mostrare uno studio e per studiare insieme. I traduttori presenti in sala rincorrono la voce di Eugenio, che parla lentamente, scegliendo ogni parola con cura.

Gli allievi, sudati, escono dalla sala per bere o mangiare o dormire. Lui saluta, dà appuntamento a domani, concede due minuti di pausa. Non esce mai dalla sala prove.

Ricorda i nomi di ognuno dei diciassette allievi. Parla in italiano, inglese, portoghese, per cercare di farsi capire.

L’ultima ora dell’ultimo giorno di studio prende una scena tra quelle presentate inizialmente e ne cura la regia, o meglio, il montaggio. Non cambia nessuna delle intenzioni originali dell’attore, ma suggerisce delle variazioni sul tema. Le indicazioni sono a tratti spassose: fa seguire il povero attore da un nano invisibile, a cui dice di rivolgersi, oltretutto. Mantiene ogni gesto proposto, ma ne varia ritmo, direzione dello sguardo, azione vocale. Inutile dirlo, la scena prende vita. Nel senso che sembra davvero di vedere un essere vivente in scena. Non c’è più l’attore, ma uno strano essere che si estende per tutta la grandezza del palcoscenico, un essere luminoso, capriccioso, dai colori cangianti. Un essere che non possiamo far a meno di guardare.

Mentre Eugenio, Julia ed Elena proseguono il loro viaggio, gli attori-allievi del Flipt cominciano le prove per lo spettacolo La tempesta.

A Fara in Sabina, appena giunti, si è rimasti colpiti dal silenzio irreale delle strade, un borgo medievale praticamente vuoto. Un convento di suore, un bar, un piccolo forno.

Andando via, nel silenzio di Fara in Sabina risuonava il canto di diciassette ragazzi.

Il FLIPT 2017 prosegue fino al 9 luglio; il programma completo è consultabile qui.



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