Arti Performative Dialoghi

Il potere della memoria, la memoria del potere. ErosAntEros racconta il nuovo “1917”

Renata Savo

Ricorrenze storiche, anniversari di nascita e morte. Di attori, artisti, poeti, scrittori, istituzioni, fondazioni. Ogni anno, con una fame vorace di futuro, la cultura e l’ambiente teatrale si nutrono di memoria. Un pozzo vastissimo di accadimenti di ogni sorta. Un passato collettivo che ci riguarda, ci tormenta, e altre volte ci sfugge.

A Bologna, per esempio, a 37 anni esatti dalla Strage di Ustica, si inaugura Ultima, un’installazione performativa che prende vita da stasera a venerdì 30 giugno all’Arena del Sole in orario serale, concepita da un artista di fama internazionale come Christian Boltanski, che fa ritorno a Bologna nell’ambito di un più ampio progetto promosso dal Comune dedicato alla sua figura artistica; ed è così, per fare un altro esempio, che a Genova poco più di un mese fa si è tenuto “Ivrea Cinquanta”, un convegno a cura del Prof. Marco De Marinis, per ricordare a quarant’anni di distanza un evento importante e di problematica storicizzazione per il teatro italiano quale fu il Convegno di Ivrea.

Arriviamo allora a domani, 28 giugno: al Teatro Alighieri di Ravenna debutta 1917, uno spettacolo “poetico-musicale” ideato da ErosAntEros, cioè Agata Tomsic e Davide Sacco, che Ravenna Festival ha commissionato al duo di artisti emiliano-romagnoli a un secolo dalla Rivoluzione d’Ottobre.

Lungi dal voler misurare gli effetti di quei dieci giorni che sconvolsero il mondo, lo spettacolo prende forma da un montaggio drammaturgico di Agata Tomsic, che ha operato chirurgicamente, come farebbe un dramaturg di tedesca definizione, su poesie e testi di autori e artisti russi, suggeriti dall’occhio esperto dello studioso di cultura e arte russa Fausto Malcovati.

Abbiamo chiesto ad Agata Tomsic e a Davide Sacco di parlarci di questo nuovo lavoro a partire dalle possibili analogie con lo spettacolo precedente, Allarmi!, per riflettere, in conclusione, sulla presenza delle istituzioni nell’arte oggi, e anche sul significato attuale di uno sguardo particolare (privilegiato?) come quello del critico, figura al centro di un dibattito vivacissimo e aperto sulla funzione della critica oggi, al tempo della disintermediazione (a tal proposito, segnaliamo le interviste che ateatro sta pubblicando, contenute in Dioniso e la nuvola. L’informazione e la critica teatrale in rete: nuovi sguardi, nuove forme, nuovi pubblici, edito da FrancoAngeli).

 

Allarmi! (2016) ha visto la collaborazione del drammaturgo Emanuele Aldrovandi; 1917, invece, si avvale della consulenza dello studioso Fausto Malcovati. Che cosa significano per voi queste collaborazioni, come le interpretate rispetto al vostro lavoro?

Agata Tomsic: Le operazioni che abbiamo compiuto in questi ultimi due lavori sono molto diverse tra di loro. Per Allarmi!, dopo un primo periodo di ideazione, Davide ed io abbiamo messo per iscritto due paginette di progetto e, per la prima volta, abbiamo sentito la necessità di confrontarci con un autore teatrale per costruire una drammaturgia forte, che sviluppasse una narrazione diversa rispetto a quelle che avevo scritto in precedenza, sulla quale andare a innescare i dispositivi scenici propri del nostro fare. Abbiamo quindi incontrato la scrittura di Emanuele e deciso di collaborare con lui, chiedendogli di scrivere un testo originale a partire dalla nostra idea iniziale. Poi è accaduto che l’incontro sia stato particolarmente felice, e la forma scenica ha contagiato la stesura del testo come la stesura del testo ha contagiato la forma scenica. In Allarmi! comunque il mio lavoro non ha toccato il testo direttamente, di fatto non ho scritto una parola, ma in qualche modo ha fatto in modo che questo testo dialogasse con il nostro modo di fare teatro. 1917, invece, è un’operazione molto differente: si tratta di uno spettacolo “poetico-musicale” per il quale abbiamo chiesto a Fausto Malcovati, profondo conoscitore della storia del teatro, delle arti e delle avanguardie russe, di collaborare con noi in veste di consulente letterario. Fausto è stato caro, prezioso e generoso nel suggerirci autori e letture che poi ho approfondito per creare un montaggio drammaturgico originale. Il testo che ho realizzato è quindi un montaggio che ha preso consistenza e vita propria rispetto ai materiali di partenza combinandoli tra loro per realizzare un unico racconto. Non avendo la presunzione di affrontare tutti gli argomenti dello scibile umano soltanto sulle base delle nostre conoscenze, avere un profondo conoscitore della materia che affianchi il processo di produzione può perlomeno aiutare a capire, di fronte a una quantità molto vasta di materiali, su cosa concentrarsi per il tipo di colore che si vuole dare a un lavoro. Il dialogo con Fausto è continuato anche durante e dopo la stesura. È un grande privilegio poter collaborare con studiosi come lui che non sono semplici esperti, ma persone nutrite da una passione per ciò che indagano che è simile a quella che mettiamo noi nel nostro lavoro, nella nostra vita di tutti i giorni.

 

Quali sono le analogie tra questi due spettacoli, Allarmi! e 1917, a parte il fatto che trattano argomenti che mentre hanno radici nel passato ci parlano del presente?

A.T.: Allarmi! parla del presente in maniera assai più dichiarata, mentre in 1917 portiamo in scena le parole di poeti che hanno vissuto la rivoluzione e con slancio hanno perseguito l’utopia di creare un mondo nuovo, più giusto, dove ci fosse uguaglianza, fratellanza. Qui tentiamo di portare gli spettatori a riflettere sul presente e a immaginare un futuro diverso.

Davide Sacco: Sì, si tratta di due lavori molto diversi. Allarmi! è uno spettacolo che ha al centro una storia di neofascismo che poi arriva ad tramutarsi in una riflessione sulla democrazia postcapitalista, che sembra essere invincibile e poter fagocitare qualsiasi cosa, ma è anche, forse, una riflessione sul rapporto tra la solitudine nell’epoca delle nuove tecnologie social e gli estremismi. Uno spettacolo che vede cinque attori molto bravi in scena, che devono continuamente giocare con i livelli di rappresentazione, con l’utilizzo della tecnica a vista, con il dispositivo video dal vivo, con continui cambi di costume, di personaggi, di punti di vista. 1917 è invece uno spettacolo musicale sulla Rivoluzione Russa che mette in dialogo il montaggio di Agata di testi di poeti carichi di gioia e spinta rivoluzionaria, con un mio montaggio musicale a partire dal Quartetto n.8 di Sostakovic (eseguito dal Quartetto Nous) che è stato scelto in contrasto con la gioia delle parole, per la sua cupezza e perché dedicato dal compositore alle vittime del fascismo e delle guerre o forse a se stesso, come fa intuire certamente la struttura stessa del quartetto, ricca di auto-citazioni, tra le quali non a caso proprio la Lady Macbeth, che gli costò molto… Senza dilungarmi in dettagli potrei semplicemente dire che nei testi abbiamo voluto riportare in vita quello slancio rivoluzionario e gioioso che ha caratterizzato la gli artisti che hanno aderito alla Rivoluzione Russa, senza addentrarci in grigiori successivi, mentre con la musica abbiamo operato in netto contrasto. A questi due elementi, che dialogano per l’intero corso dello spettacolo, ne abbiamo aggiunto un terzo, ovvero un video di illustrazioni animate da Gianluca Sacco ispirato al costruttivismo, come il costume che Agata veste in scena, realizzato da Laura Dondoli.

Come nasce l’incontro con il Quartetto Nous?

D. S.: È stato Franco Masotti, direttore artistico di Ravenna Festival, ad aiutarci a individuare il quartetto adatto al quale affidare l’esecuzione di questo montaggio musicale e con il quale collaborare quindi alla creazione dello spettacolo. L’incontro con il Quartetto Nous è stato meraviglioso perché non si è trattato soltanto di collaborare con dei musicisti eccellenti, ma anche con persone molto disponibili, che si sono messe in gioco ed hanno contribuito alla crescita del lavoro. È davvero un piacere lavorare con loro.

Com’è cambiato, secondo voi, il rapporto tra arte e potere dopo l’ultima riforma dello spettacolo dal vivo? Il fatto che la riforma imponga a grosse realtà del panorama teatrale di finanziare artisti giovani che improvvisamente si trovano tra le mani un’occasione di lavoro con un teatro nazionale, ha delle ripercussioni sulla libertà di espressione o sul modo di comunicare la collaborazione stessa all’esterno, al pubblico?

D. S.: Mi pare positivo si pensi a come dare sostegno al teatro attraverso le istituzioni e si tenti di creare delle regole, perché sono convinto che il teatro debba essere una questione pubblica, poi è chiaro che si potrebbe fare di meglio, ma non voglio addentrarmi in dettagli e considerazioni lunghe e noiose. Da parte mia, vorrei che il teatro fosse accessibile a tutti, che i biglietti avessero prezzi popolari o che addirittura tutti gli spettacoli fossero ad accesso libero. Non parlo soltanto degli spettatori. Ho paura che un grande rischio per il teatro sia quello di diventare completamente autoreferenziale e persino elitario. Temo che lavorare in condizioni come quelle in cui ci ritroviamo possa portare a restringere talmente tanto la categoria degli artisti da farla coincidere con quella minoranza di persone che possono permettersi di non guadagnare nulla, pur lavorando molto e per molti anni, discriminando totalmente chi non può permetterselo. L’espressione artistica rischia di coincidere completamente con l’espressione di una piccola fetta della popolazione che può permettersi di fare quell’esperienza. Se fare teatro “indipendente” vuol dire questo, non è qualcosa che può piacermi, e allora, forse, una certa istituzionalizzazione potrebbe anche non essere negativa, perché potrebbe andare verso la direzione in cui chi lavora è pagato per il lavoro che fa. Per quanto ci riguarda, lavorare con un teatro nazionale è stata un’esperienza totalmente positiva perché siamo stati del tutto liberi e indipendenti dal punto di vista artistico e allo stesso tempo sostenuti lavorando all’interno di una struttura al fianco di persone competenti dal punto di vista dell’organizzazione, della produzione, della tecnica, dell’ufficio stampa, ecc.

A.T.: Il problema è, al massimo, la continuità, la questione della precarietà. Magari un anno hai la fortuna di essere prodotto da uno stabile, ma poi, l’anno successivo, non è detto che tu trovi sempre dei teatri interessati a produrre i tuoi spettacoli. Che cosa fai? Una struttura indipendente può “salvarti” da questi problemi, ma se la tua “struttura” è esile quanto la nostra, prodursi da soli ti costringe a svolgere per mesi una serie di lavori non artistici, reinventandoti organizzatore, amministratore, tecnico ecc.… Dagli anni Settanta in poi in Italia sono cresciute diverse compagnie di ricerca che con il loro importante lavoro sul territorio e di sperimentazione artistica hanno colmato delle lacune che in quegli anni ancora esistevano. Se pensiamo soltanto alla nostra regione, ci rendiamo conto che molti di questi gruppi hanno creato delle case del teatro che sono diventate a loro volta delle istituzioni. Sono potuti crescere prima della crisi economica e in periodi in cui la politica investiva molto di più nella cultura rispetto ad oggi. In questo momento non mi sembra ci siano le stesse condizioni di crescita per i giovani gruppi, ma soprattutto che in alcuni territori, come il nostro, dove l’offerta culturale è già così ricca e radicata, la politica non senta più il “bisogno” di far crescere nuovi gruppi, per cui iniziamo a pensare che forse l’orientamento sia cambiato e che aggregarsi o farsi sostenere da quelle istituzioni che sono nate trenta o quaranta anni fa, o dal sistema degli stabili, è forse l’unica strada percorribile.

Non solo il modo di fare teatro è mutato, viene da dire, ma anche il modo di guardarlo e di raccontarlo. La critica si è sempre interrogata su quale sia la propria funzione, e oggi, nell’epoca della disintermediazione, le domande che essa si pone assumono un valore che prima non avevano ancora mai avuto. Io però vorrei chiederlo agli artisti cosa ne pensano. E quindi chiedo a ErosAntEros qual è stata, e qual è tuttora, la funzione della critica attraverso l’esperienza personale. Recensioni positive hanno delle ricadute? Se sì, più sul vostro pubblico o maggiormente sul vostro lavoro? Che differenza c’è tra il dialogo con un critico e quello con un altro artista?

A.T.: Il critico è uno “spettatore professionista”, vede molti spettacoli e ha uno sguardo privilegiato, ma soggettivo come quello di un’artista o uno spettatore “comune”, e che può essere condiviso da più o meno persone, oppure no. Per me, che sono un’artista, quando vedo uno spettacolo spesso penso a come lo avrei fatto io. Tutto ciò che vedo è sempre un po’ mediato attraverso il mio sguardo di “artefice della scena”. Vedere gli spettacoli degli altri per me è prima di tutto un esercizio, che io e Davide amiamo chiamare di “formazione permanente”. E poi, a volte, leggo anche delle recensioni, perché sono curiosa di vedere cosa pensano gli altri di quello che ho visto o ancora non ho avuto modo di vedere. Spesso, soprattutto all’inizio, quando leggi recensioni di un tuo lavoro non riesci a ragionarci in maniera oggettiva, a separarti dalla forma che hai creato. Altre volte, invece, si scoprono cose nuove, sono dei modi per ripensare il tuo fare, portarlo verso altre direzioni.

D.S.: Se devo dire la verità forse lo scambio maggiore che abbiamo avuto è sempre stato più con studiosi che con i critici.

A.T.: Più della recensione, ciò che mi interessa è proprio lo scambio sincero.

D.S.: Ciò che abbiamo molto a cuore è il rispetto per lo sguardo in generale: che sia lo sguardo di qualcuno che chiamiamo “critico” o che chiamiamo “spettatore”, io credo siano importanti entrambi allo stesso modo e in modo diverso. Prendo le parole di ciascuno in modo diverso, ma mi interessano tutte.

A chi sto parlando, chi è il mio pubblico, sono questioni inerenti tanto chi il teatro lo recensisce tanto chi lo fa…

A.T.: Si tratta di un discorso legato per vie traverse anche alla questione del contributo pubblico, forse: perché dovremmo essere finanziati dai contribuenti, se poi ci divertiamo soltanto in cinquecento a giocare con il gioco del teatro? Bisogna fare in modo che anche chi non ha mai visto uno spettacolo di teatro di ricerca possa aver voglia di vedere il tuo lavoro e che riesca a uscirne con un’esperienza che per lui acquisti un significato, magari anche molto diverso da quello che gli ho dato io, ma l’importante è che il teatro torni ad essere “pubblico” anche nel senso che è di tutti e per tutti e che smetta di sembrare a molti soltanto una cosa distante, noiosa o difficile da comprendere.

D.S.: Un nodo fondamentale però riguardo al “teatro pubblico” è proprio questo: che non entri in nessun modo nel teatro pubblico il teatro commerciale. Un riferimento costante per noi in questo senso è il “teatro popolare di ricerca” di Leo de Berardinis, un teatro che sia per tutti ma mantenendo un livello culturale alto, e che, proprio per questo, deve e può essere soltanto pubblico.



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