#Ivrea50. Part II. Terzo Teatro, periferia, marginalità, “terzietà”
Seconda parte del reportage dedicato al Convegno “Ivrea Cinquanta” che si è svolto a Genova dal 5 al 7 maggio
Terminata la presentazione delle questioni di tipo storiografico, la seconda sessione della prima giornata ha affrontato alcuni temi inerenti ai processi di produzione delle compagnie che si sono affacciate a cavallo tra la fine del Secondo e l’inizio del Terzo Millennio. Non senza passare prima dalla ‘tavola rotonda’, momento di confronto a più voci, tra Franco Perelli, Gerardo Guccini e Mimma Valentino. Quest’ultima, sul filo degli studi dottorali da lei conseguiti sotto la guida di Lorenzo Mango presso l’Università “L’Orientale” di Napoli (cui va il merito di aver avviato, in anni recenti, indagini incentrate sul fenomeno del Nuovo Teatro), si è soffermata sulle ricerche emerse grazie agli scritti di Giuseppe Bartolucci che riguardano la scena italiana nel decennio che va dalla metà degli anni Settanta e alla metà degli Ottanta. Sebbene fu tra coloro che restarono più delusi dal Convegno di Ivrea, Bartolucci continuò a essere protagonista assoluto di esperienze vivacissime, come la rassegna salernitana “Nuove Tendenze” (negli anni 1973-1976), grazie alla quale a Salerno giunsero nomi internazionali del calibro di Peter Brook, Bob Wilson, il Living Theatre.
Più volte citato nel corso di “Ivrea Cinquanta”, e in particolare da Gerardo Guccini, il Terzo Teatro, definizione che fu coniata da un altro protagonista sui generis del Convegno di Ivrea, Eugenio Barba, e al centro anche di un convegno a cura di Roberta Ferraresi che si è tenuto recentemente a Bologna (il 18 marzo), nell’ambito di un progetto più ampio di ricognizione “attualizzata” del fenomeno e delle eredità che ci ha consegnato.
Barba, lo ricordiamo, nel suo Manifesto del 1976 parlava, a proposito del lavoro del suo Odin Teatret, di conquista della differenza, intesa in termini geografici e culturali, sottolineando il grande valore che per lui ha avuto il teatro fuori dal teatro: terreno di scambio tra culture diverse, di «baratto», come ama ancora oggi definirlo all’alba del cinquantennio di attività. Un pensiero che ci conduce per mano verso l’intervento di Laura Mariani.
Mariani ha inizialmente menzionato Renata Molinari, l’attenzione riposta da quest’ultima verso la Romagna felix degli anni Novanta (si veda al proposito, Certi prototipi di teatro, Ubulibri, 2000) e l’esistenza di una questione romagnola del teatro; ma ha fatto poi qualche passo indietro per partire dagli anni Ottanta, quelli che hanno visto la nascita della Societas Raffaello Sanzio, Teatro della Albe, Teatro Due Mondi, Teatro Valdoca. Ha rilevato l’importanza, per i gruppi dell’area romagnola, che ha rivestito l’azione di portare, fare, il teatro nelle periferie urbane, le derive estetiche di una scelta e ciò che questa ha comportato in termini produttivi, non soltanto etici: «La periferia è una scelta per rivendicare una marginalità diversa», ha affermato, per poi passare in rassegna una serie di punti di contatto che ha individuato fra le diverse realtà, che non solo sono arrivate, sopravvissute, agli anni Novanta (dove anzi sono letteralmente esplose come “fenomeno”), ma hanno oltrepassato la soglia del secondo decennio del nuovo secolo (che siano quelle esperienze il Nuovo Teatro dei giorni nostri? Sfiorammo l’argomento qui). I punti che ha selezionato riguardano la formazione in ambiti diversi dal teatro, ed è accaduto a Cesare Ronconi e a Mariangela Gualtieri, che sono stati studenti di architettura a Venezia, ma anche a Lorenzo Bazzocchi di Masque Teatro (studente di ingegneria), oppure ancora, a Enrico Casagrande e Daniela Nicolò dei Motus (il primo studente di economia, la seconda di sociologia); l’essere famiglie d’arte, come nel caso della cesenate Societas Raffaello Sanzio (oggi solo “Societas”); e in generale, il non professionismo come scelta estetica per chi cura l’ideazione del progetto-prodotto spettacolare. Su quest’ultimo aspetto, quello della progettualità, l’intervento di Mariani anche si è fermato: poiché lo spettacolo viene a essere l’esito di una lunga e complessa progettualità, va avanzato il problema dell’idea del testo che dovrebbe includere anche i molteplici studi preparatori al prodotto finale. La marginalità di cui Mariani parla, quindi, per tornare a Barba, non implica soltanto l’azione di decentramento, o di spostamento del teatro dal centro urbano alla periferia. Non si tratta di una marginalità soltanto “geografica”, ma di una «marginalità diversa», e così si definisce nella misura in cui investe una scelta precisa: fare teatro, produrlo, farne professione d’arte, grazie al lavoro e al contributo, nel progetto estetico, di ciò che fino a prima veniva considerato anti-estetico (attori non professionisti, attori portatori di disagio sociale, attori che espongono nel testo le loro biografie o per i quali il testo assume una valenza che li riguarda in prima persona). Anche Fabio Acca, in apertura della seconda giornata del convegno, ha presentato quelli che secondo lui corrispondono ai nuovi specifici linguistici del «terzo paesaggio» della danza contemporanea in Italia, terza di numero, ma anche nel senso della via indicata da Barba, di marginale (che forse è la parola-chiave di tutti i contributi di “Ivrea Cinquanta”): il paesaggio della danza non tradizionale né istituzionalizzata, in cui si producono «rituali di immanenza più che spettacoli», momentanei rifugi in cui coltivare la diversità secondo relazioni di interdisciplinarietà, dove espressioni come «unicità», «sensibilità performativa», accanto ad altre, denotano la diffusione di nuovi principii estetici che investono il corpo scenico.
Paolo Puppa sembra aver ripreso le fila del discorso, poco dopo l’intervento di Laura Mariani, quando ha spiegato la caduta dell’attore accademico, e il ribaltamento dei canoni estetici «rinascimentali», per cui la bellezza, il sublime, sono venuti a coincidere con la “goffaggine” o con il trash (un attore come Dario Fo può essere forse considerato un antesignano in questa direzione). Un fenomeno che ha generato l’affermarsi di un vero e proprio «anti-rinascimento dell’attore contemporaneo». Attori che pian piano, sulla nuova scena, diventano «attanti, come manichini».
Non cambia solo il tipo di attore, come dimostra il lavoro di elevato spessore artistico di realtà come i Babilonia Teatri, per esempio, ma anche i processi narrativi. Le figure si moltiplicano ed entrano in gioco delle forme di narrazione accostabili allo zapping televisivo, ha suggerito Puppa; argomento, quello del rapporto tra mediologia e teatro, che è stato poi ben trattato da Laura Gemini, quando nel suo intervento ha paragonato la struttura di uno spettacolo come MDLSX dei Motus al formato playlist di Spotify, e definito le arti performative «luoghi privilegiati della mediatizzazione» anche quando i media non costituiscono base tematica per le performance. Si moltiplicano le figure attorali, dunque, e si “espandono” anche, insieme alla scena, come ha ricordato Silvia Mei parlando del teatro all’inizio del Terzo Millennio o, semplicemente, del nuovo secolo, un secolo che però – ha precisato – inizia verso la metà degli Novanta e per cui si potrebbe iniziare a parlare di una «terza avanguardia» teatrale, etichetta che secondo la studiosa diverrebbe utile a superare gli steccati anagrafici del “nuovo”. Qui l’attore non è più solo attore, ma anche autore, regista, un promotore di comunità temporanee e intermittenti, mentre la scena assurge a «iperscena», contenitore di più linguaggi, dispositivi, connessioni con una realtà verso la quale chi fa teatro nel presente si pone in rapporto traumatico, Hal Foster, nel suo saggio The Return of The Real più volte ricordato da Mei, avrebbe detto “alla maniera del pop artist”, che cita, ingloba, ripete, ma mai riproduce o analizza, la realtà mediata con cui entra in contatto, senza, cioè, che avvenga con essa un reale incontro.