Intervista ad Alessandra Crocco
Uno dei temi fondanti la visione di Mutaverso a Salerno – la stagione organizzata da Erre Teatro e diretta da Vincenzo Albano di cui Scene Contemporanee è media partner – è sicuramente il rapporto con il territorio e con le professionalità locali, di cui un ampio assaggio si era già visto a Gennaio con il progetto “Itaca – La bottega dei ritorni” di esperienza laboratoriale svolta con attori e performer salernitani e diretta da Maurizio Lupinelli.
A rinforzare ancora di più questo legame è la presenza in stagione di una salernitana, Alessandra Crocco, residente a Lecce dove negli anni ha perseguito l’attività teatrale soprattutto (ma non solo) all’interno dei Cantieri Koreja, che insieme ad Alessandro Miele, campano anche lui (di Pompei) e proveniente da un esperienza di svariati anni come membro di una delle compagnie teatrali più interessanti del panorama teatrale italiano come i Menoventi, hanno deciso di mettere su un progetto condiviso chiamato “Progetto Demoni” che ruota(va) intorno al capolavoro di Dostoevskij e che come primo output ha prodotto dei “Frammenti” che saranno portati in scena in tre luoghi diversi – non teatrali – della città di Salerno. Ne abbiamo parlato proprio con Alessandra Crocco:
Da dove nasce l’esigenza di confrontarsi con un testo come “I Demoni”?
Era un’esigenza nostra come attori quella di ricercare un modo di lavorare che ci interessasse e di approfondire la ricerca attoriale, e proprio per questo ci siamo rivolti a “I Demoni”, cioè perché ci sembrava un testo in cui trovare la profondità che stavamo cercando e dove emergono molto forti i personaggi, queste figure che sono in continua lotta con un demone personale, e che per questo ci offrivano molti spunti per il lavoro d’attore che volevamo fare. Abbiamo iniziato questa ricerca dal buio più totale, senza nessuna idea precostituita, e abbiamo lavorato in sala facendo degli esperimenti e delle improvvisazioni partendo da dei grandi dossier di testi presi dai Demoni.
Avete sempre avuto l’idea di decostruire l’opera in frammenti?
No, abbiamo cominciato partendo dal nulla però molto presto ci siamo accorti che ci interessava un tipo di recitazione che forse poteva esprimersi pienamente solo con il rapporto diretto con lo spettatore e abbiamo capito anche che ci interessava questa dimensione del “frammento” perché nel romanzo di Dostoevskij c’è una trama molto complessa – è un romanzo molto lungo, con tanti personaggi, dove succedono tante cose – però soprattutto ti restano dei momenti che sono universali, ovvero brani in cui tu ti dimentichi della trama e ti trovi a diretto contatto con un personaggio o con un sentimento o un’atmosfera particolare in cui il tempo si sospende e tu sei lì a confrontarti con qualcosa che ti riguarda. In questo senso siamo arrivati a costruire dei “frammenti” in cui si andava diretti al cuore di quel sentimento; sono come delle epifanie, delle rivelazioni dei tre personaggi su cui abbiamo lavorato. Abbiamo lavorato su questi frammenti allora e piano piano ci siamo accorti che quei momenti erano per noi molto forti e da qui abbiamo cominciato a mostrarlo al pubblico, rendendoci conto che questa nostra impressione l’avevano anche gli spettatori, questa sospensione del tempo per pochi minuti che ti fa dimenticare di stare vedendo uno spettacolo. Per cui da qui abbiamo continuato a credere e a realizzare questo progetto, con la convinzione che potesse darci una strada e una prospettiva nuova.
Anche il setting è molto importante, ed è stato infatti accuratamente scelto sia per la rappresentazione di Salerno sia in generale in tutti i posti in cui lo portate.
Si, anche questo contribuisce a creare questa sospensione dell’incredulità dello spettatore: dal momento in cui entra nel luogo deve dimenticare di stare per vedere uno spettacolo e quindi la location è importantissimo sia nella realizzazione della performance quando lo spettatore è presente ma è importante anche per noi nel modo di mettere in scena il frammento di volta in volta nei vari luoghi perché ci facciamo molto influenzare anche dal tipo di luogo, dalla luce che c’è, i suoni che ci sono, l’atmosfera che si riesce a creare ecc.
Oltre a questi tre “frammenti” che presentate qui a Salerno c’è anche un altro spettacolo dedicato a “I Demoni”, ovvero “Fine di un romanzo” in cui forse avete cercato anche una sintesi più teatrale a questo vostro lavoro di ricerca.
Si, quello che proviamo a ricercare quando siamo in teatro è cercare di ricreare quell’atmosfera che c’è nei frammenti e nei luoghi non teatrali anche in sala, sempre lavorando per frammenti ma cercando di trovare una direzione più teatrale. Abbiamo fatto uno studio che è stato presentato al Napoli Teatro Festival e da lì siamo andati avanti trovando delle cose interessanti soprattutto nella ricerca attoriale, anche lavorando con altri performer, abbiamo fatto qualche altra replica e speriamo di poterlo riprendere come lavoro, che è abbastanza complesso anche per ragioni produttive in quanto si tratta di un lavoro abbastanza consistente, con cinque persone in scena.
Tra l’altro, parlando del Napoli Teatro Festival, siete anche in procinto di debuttare con il nuovo spettacolo “Lost Generation” il 26 Giugno. Come sta procedendo?
Abbiamo fatto un periodo di residenza a Kilowatt Festival per questo lavoro che si basa sulla vita e le opere di Francis Scott Fitzgerald e di sua moglie Zelda e siamo soltanto io ed Alessandro in scena. La prima fase di prove è andata molto bene perché avevamo dei materiali di partenza che avevamo scritto un po’ a tavolino e un po’ improvvisando che poi abbiamo testato in scena con il lavoro sulle luci e sono nate cose interessanti; al momento abbiamo i primi trenta minuti e stiamo andando avanti sulla costruzione. Anche questo progetto ha dei legami con “I Demoni” perché ci interessava molto il tema del fallimento e della caduta di figure che cercando di spingersi oltre i propri limiti, come lo Stavrogin dell’opera di Dostoevskij, e da lì vanno incontro ad un fallimento ma tentano sempre di rialzarsi, e così sono Fitzgerald e la moglie che hanno avuto queste vite tragiche: un inizio di grande successo e spensieratezza che corrisponde all’età del jazz, ovvero gli anni ’20, e poi – in coincidenza con la crisi di Wall Street e la Grande Depressione – la crisi di Francis Scott come scrittore, non più in grado di scrivere un romanzo, e di sua moglie Zelda, che viene ricoverata per schizofrenia e passerà così il resto della sua vita.
Vedo comunque un vostro legame con la letteratura non drammaturgica molto forte all’interno dei vostri lavori.
Si, anche questa cosa è uscita è in maniera molto naturale e non è stata voluta, perché noi siamo soprattutto degli attori più che dei drammaturghi e ci interessa la scrittura di scena, per cui poter partire ed attingere da dei testi letterari e renderli teatrali con il lavoro d’attore per noi ci offre tantissimi spunti, piuttosto che mettere in scena testi teatrali.
Tu sei salernitana e ti esibisci all’interno di una stagione, come quella di Mutaverso, che ha tra i suoi punti quello di un recupero del territorio e delle sue professionalità. Tu sei partita da qui, poi ti sei spostata in Puglia dove hai trovato altre strade, ma qual è il tuo rapporto con il territorio dal punto di vista artistico e professionale e come vedi la situazione cittadina?
Io ho scoperto il teatro a Salerno e sono stata fortunatissima perché ho incontrato nel mio quartiere Ruggero Cappuccio e Claudio Di Palma che facevano una scuola di teatro al Centro Sociale; io avevo 16 anni e sono stata molto fortunata perché potevo incontrare persone molto meno competenti e invece ho incontrato loro ed è stata una fulminazione che ha fatto iniziare una passione e una strada che ancora oggi continua. Anche per questo sono legata alla città perché mi ha offerto questa cosa; io penso che le opportunità le possano creare le persone con il loro lavoro, ma è vero che bisogna creare le condizioni affinchè queste persone possano avere spazio. In generale, a Salerno come magari in altre città, è difficile creare una distinzione tra progetti che hanno una lungimiranza o una visione e che soprattutto sono progetti professionali e distinguerli da realtà che invece sono amatoriali, che è giusto che esistano perché deve esserci un movimento e tutto, ma bisogna riconoscere la qualità dei progetti, e questa cosa la sento un po’ peggiorando ma non solo a Salerno ma in generale. Si fa fatica a riconoscere la qualità di un progetto teatrale.