Per chi non conosce in maniera approfondita l’opera di Gipi, al secolo Gian Alfonso Pacinotti, la sua opera cinematografica seconda, dal titolo Smettere di fumare fumando, presentata in concorso al Torino Film Festival, potrebbe risultare decisamente spiazzante: siamo lontanissimi dalla concezione de L’ultimo terrestre, suo debutto nelle sale, che aveva fatto parlare di sé in modo alterno a Venezia 2011, per avvicinarsi molto di più alle atmosfere dei suoi corti pubblicati su Youtube e ai suoi fumetti più personali, in particolare LMVDM – La mia vita disegnata male.

A metà tra la fiction e il documentario, Smettere di fumare fumando racconta i primi dieci giorni della vita da non fumatore di Pacinotti, che un giorno decide di passare di colpo dalle quaranta sigarette giornaliere (Due pacchetti) a zero; nel far ciò, riprende con mezzi di fortuna i primi passi nel mondo del “no tabacco” (uno smartphone, prevalentemente), creando una sorta di diario, in cui il girato di ogni singolo giorno viene montato alla fine dello stesso, con la regola di non modificare più quanto fatto quel giorno, in modo da non alterare la visione del diario. E così, tra scene con maschere d’ippopotamo (citazione lynchiana? No, Bud Spencer), madri non comprensive (Perché smettere di fumare se è una cosa che ti piace fare e ti fa male starne senza? Non fa una piega, in teoria) e altro, procede il cammino di questo film sperimentale di 68’, che però non è più interessante di una semplice testimonianza.

Il punto fondamentale dell’opera infatti è quella di essere ciò che non è: un film invece che un corto sperimentale da youtube. Trenta minuti dei 68’ complessivi erano sostanzialmente inutili, non c’è nessuna velleità di tipo estetico, proprio per il concept stesso del film, e altri fattori ancora ci fanno capire che questo prodotto, nato per il gusto di Gipi di “pensare alle cose che mi piacciono”, debba essere preso non come una qualunque pellicola cinematografica, che non è, ma come una sperimentazione, presentata all’interno di un festival. Questo quantomeno per salvaguardare la dignità dell’opera, che pur presenta momenti di genio, ma che naufraga in questa concezione ibrida di creazione d’un lungometraggio (e alcune scene hanno anche la fastidiosa impressione di essere già preparate, squarciando l’illusione documentaristica); stupisce pertanto la decisione di Fandango di distribuire nelle sale il film, che avrebbe meritato una più interessante diffusione online, proprio per la struttura dell’opera, in attesa di capire la strada che Gipi vuole percorrere nel mondo del cinema.