Ad aprire la sezione CinemaXXI, dedicata alle nuove tendenze e alle sperimentazioni filmiche, del Festival del Cinema di Roma è toccato a L’amministratore, il nuovo film di Vincenzo Marra, apprezzato documentarista italiano che negli ultimi anni della sua carriera si sta concentrando su una serie di film che raccontano la sua città natale, Napoli, cogliendone gli elementi più tipici della sua antropologia sociale attraverso la narrazione di alcuni dei locus che agiscono da motore sociale nella città. E così, dopo lo stadio, il tribunale, la fabbrica e il carcere, L’amministratore ci conduce nel cuore della famiglia partenopea, ovvero il condominio, attraverso il lavoro di Umberto Montella, amministratore appunto, incaricato di gestire le beghe e le casse di condomini appartenenti a differenti estrazioni sociali.

E così, la routine quotidiana dell’amministratore di condominio diventa luogo privilegiato per capire le differenze sociali e culturali della cittadina, in quanto il film insiste su quattro condomini in grado di rappresentare le differenze socioculturali del capoluogo partenopeo, ricco di contraddizioni in sé: dalla fu ricca borghesia, oggi spiantata e in declino, costretta a vendere parte delle sue proprietà e di subaffittarle, alle liti sulle differenze di affitto in un condominio della classe media al Vomero, da una casa nel rione Sanità, in cui vigono dinamiche sociali interne (Don Peppino, rappresentato nel film, è una persona rispettata nel quartiere, e quindi in grado di influenzare saldi e pagamenti del medesimo), fino alle decadenti costruzioni di San Giovanni a Teduccio, nella periferia Nord di Napoli, in cui sono presenti in maniera radicata anche fenomeni legati alla camorra che attraversano la vita dei condomini come una sorta di substrato che si oppone e complementa allo Stato.

Con L’amministratore Marra continua a mostrarci le tante facce di Napoli da un ruolo di ascoltatore privilegiato, ovvero quello di abitante della stessa città, e quindi in grado di comprendere perché presente nel suo DNA quelle caratteristiche che rendono la città un luogo cinematografico naturale, sia in senso positivo che in senso negativo. In questo senso infatti, il film si limita – e non è poco – ad ascoltare ed assecondare questa ancestralità, permettendone con il suo sviluppo lineare ma preciso e curato di comprenderla e compenetrarla. Si ride, e non potrebbe essere altrimenti di fronte alle dinamiche differenti dell’antopologia sociale napoletana, ma è anche l’occasione per affrescare un ritratto di un luogo che – è evidente – il regista ama.