Les éclats (Ma gueule, ma révolte, mon nom)
La mia bocca, la mia rivolta, il mio nome: un sottotitolo suggestivo per il documentario vincitore del Torino Film Festival diretto da Sylvain George, un’opera originale e toccante sull’immigrazione.
Non è mai semplice raccontare l’immigrazione. Un termine del quale la maggior parte di noi, con molta presunzione, crede di conoscerne appieno il significato ignorandone in realtà gli aspetti più nascosti e profondi. Quelli di un universo nel quale è possibile imbattersi in persone dalle storie più disparate, con un passato difficile alle spalle e un futuro incerto e misterioso. Questo è il punto attorno a cui ruota l’opera di Sylvain George, Les éclats, vincitore del premio come miglior documentario straniero alle 29° edizione del Torino Film Festival. Il cineasta francese conduce lo spettatore in un viaggio all’interno di una realtà troppo spesso affrontata in maniera superficiale attraverso luoghi comuni ormai datati e fuori luogo, raccontando la storia dei migranti di Calais in attesa di sbarcare verso l’Inghilterra.
Il racconto procede attraverso lunghe sequenze di sole immagini alternate ai racconti delle varie persone costrette a vivere questa sensazione di attesa, di sospensione dalla realtà circostante. Le loro parole sincere penetrano nell’animo di chi guarda trasmettendo il loro disagio per un destino che li ha privati della possibilità di cambiare il proprio paese, sperare in un futuro migliore: di condurre insomma una vita normale. Nei loro occhi non vi è, però, alcun cenno di rassegnazione, bensì grande voglia di lottare e andare via. Un desiderio costretto a scontrarsi con la paura di essere scoperti e fermati dalla polizia che viene vista come il simbolo di una società pronta a tarpare loro le ali in nome di leggi non sempre illuminate dal buon senso. Un quadro dal quale emergono personalità sorprendenti, con una perfetta conoscenza della realtà che li circonda come dimostra il racconto di un giovane il quale fotografa in maniera precisa e puntuale lo stato del suo paese natale e le cause di tale situazione.
Quello di George è un documentario dai toni bassi e moderati nel quale l’autore si serve di una struttura essenziale e diretta che non prevede l’utilizzo di filtri quali voci fuori campo e didascalia. Caratteristiche che favoriscono un maggior coinvolgimento emotivo del pubblico a cui vanno affiancate trovate registiche indovinate come la scelta dell’uso del bianco e nero volta a conferire grande suggestione visiva all’intero lavoro. Interessante, infine, l’utilizzo di musiche dai toni a tratti disturbanti quasi a simboleggiare il contrasto stridente tra lo stato d’animo irrequieto dei protagonisti e la tranquillità dei posti nei quali sono costretti a vivere non per loro scelta.