Responsabili delle vite altrui. La coraggiosa eredità di Judith Malina
La scomparsa di Judith Malina lascia riflettere sulla direzione segnata dal Living Theatre e la sua influenza indiretta sul teatro contemporaneo italiano: il senso di responsabilità verso l’altro
Il 10 aprile il mondo del teatro ha subito un’altra grande perdita. L’anima più autentica del Living Theatre, colei che fondò il gruppo insieme a Julian Beck nel 1947, ci ha lasciati.
Judith Malina, piccola nella sua fisicità, grande e coraggiosa nel suo portamento, ha espresso lo spirito rivoluzionario di un’epoca ormai sfiorita, ma non se n’è andata senza lasciare a chi resta il peso di un’immensa eredità, la forza di credere che il cambiamento sociale, la vita quotidiana, possano dipendere in gran parte dai valori umani che coltiviamo.
Il mio primo incontro/scontro con i valori del Living Theatre risale a qualche anno fa, a quando lessi La vita del teatro di Julian Beck, e il racconto di un percorso artistico contenuto all’interno della raccolta di note, testi, appunti de Il lavoro del Living Theatre, durante i miei studi all’università. Per la prima volta compresi che il teatro non è solo un’arte, non si limita a rappresentare la vita, e che il fascino del suo linguaggio consisteva nella possibilità di combaciare perfettamente con la vita, e avrebbe dovuto farlo, per non fossilizzarsi, non incancrenirsi. Insieme, vita e teatro hanno in comune una matrice, un senso, che è quello di essere diretti alla comprensione dello stare al mondo.
Judith Malina e Julian Beck hanno recuperato l’identità più antica del teatro, di rituale sacro, e l’hanno portata nelle strade per provare a mutare le coscienze. Non importa, poi, se questo tentativo sia fallito. Conta il fatto di non avere mai smesso di provare a realizzare questa rivoluzione umana e pacifica, perché è ciò che consente di affermare la nostra esistenza. Perché il teatro, come la vita, si esprime attraverso la condivisione, nella maniera più vera e nobile del suo significato; esistiamo perché insieme abbiamo una missione da compiere, quella di lottare, condividendo le nostre vite, per rendere migliore il mondo che ci è stato consegnato. Il nostro ruolo in quanto esseri umani non è comprensibile senza questa tensione verso l’assoluto e il bisogno di credere in qualcosa di più grande.
Lo sanno bene, attraverso l’utilizzo di mezzi scenici disparati, tutti gli artisti, uomini e donne, che non riescono a far a meno di portare sul palcoscenico e nelle strade se stessi e il mistero che ci accomuna: la vita, la morte, la perdita di qualcuno o qualcosa (e non posso non pensare in questo momento alla mia recente partecipazione a The Walk di Cuocolo/Bosetti); lo sanno quelle compagnie come i Motus, che da diversi anni provano a recuperare il seme degli ideali gettato da Judith Malina e a fecondarlo, stimolando le coscienze a confidare ancora nella possibilità del cambiamento, portando il mondo esterno all’interno della sala teatrale e viceversa; lo sa chi non può far a meno di parlare dei propri drammi personali secondo un linguaggio originale, ironico e surreale, affinché possano rappresentare un aiuto per gli altri, come nel corso dell’anno abbiamo visto nel bellissimo Diario di Mariapia di Fausto Paravidino. Lo sanno Daniele Timpano ed Elvira Frosini, che proprio dalla personale comunione delle esistenze, in scena come nel quotidiano riescono a farci sentire più uniti ridendo di noi stessi, illustrando attraverso la parola e il gesto quanto ci mettiamo in ridicolo ogni volta che diamo per scontato tutto ciò che ci viene propinato dai media come se costituisse una verità intangibile; lo sa chi lavora con gli individui ai margini della società, o chi vuole offrire attraverso il teatro una seconda possibilità, come nello spettacolo Pinocchio di Babilonia Teatri con la collaborazione dell’associazione ‘Gli amici di Luca’. E la lista, anche solo restando all’interno del panorama teatrale italiano, potrebbe continuare.
È una tendenza in atto nel mondo teatrale che ci riporta alla sua radice autentica, quella di sentirsi responsabili delle vite altrui. Il bisogno di interfacciarsi con l’altro, di invitarlo a seguire le proprie orme, di inseguire un ideale, per poter dire di essere vivi.
Judith Malina, l’anima più longeva del collettivo, è morta all’età di 88 anni in assoluta povertà, senza mai smettere di concentrare le sue ultime energie in questa direzione, l’indissolubile legame tra arte e vita. Con il Living Theatre ha indicato la strada per un nuovo teatro. Un teatro che esprime al massimo grado il suo potere di avviare le trasformazioni. Prima dentro di noi, poi nel mondo.
E oggi, domani, non potremo che esserle grati per questo.