Di grandi festival e festival grandi
Il Napoli Teatro Festival e la sua storia sempre così baroccamente travagliata – per usare un eufemismo – ci dà sempre motivi di discussione ampi sullo stato dell’arte della progettualità culturale italiana. La cronaca – in maniera asciutta – ci mostra un cambio della guardia: al dimissionario Franco Dragone, il cui unico anno alla guida del festival è stato segnato da diverbi con CDA e Regione, progettualità segnate sulla carta e poi mai realizzate (a cominciare dalla coda autunnale del festival) e motivi di scontri più o meno aperti (dalla vicenda di Al Pacino alla provocazione di non presentarsi in conferenza stampa, dalle critiche sulla sua non presenza in città a quelle sulle interferenze artistiche) fa seguito il cilentano Ruggero Cappuccio – soltanto omonimo di chi scrive. Drammaturgo e regista piuttosto apprezzato – seppur molto di più per i suoi lavori passati che per quanto fatto negli ultimi anni – ci sembra però una scelta troppo legata a dinamiche del passato, non per demeriti dell’artista – che ancora non ha fatto nulla e pertanto è impossibile da giudicare – quanto piuttosto per il concetto di visione di festival che ha oggi chi questa scelta l’ha fatta.
Ha senso un grande festival oggi? A chi si rivolge? Quali sono le competenze necessarie affinché possa esserci uno sviluppo virtuoso? Come attrarre pubblico “altro” rispetto a quello che normalmente frequenta le platee e gli spazi delle manifestazioni artistiche? Queste sono solo un infinitesimale esempio delle domande che un progetto di visione a lungo termine di un festival o di una rassegna deve porsi nel momento della sua costruzione. Cerchiamo, a partire da queste, di fare una serie di riflessioni sulla progettualità culturale oggi, allo scopo di sviscerare alcune realtà – a volte anche a rigor di logica banali, ma che poi nella pratica non lo diventano – sul come ragionano o dovrebbero ragionare i festival contemporanei.
Partiamo dal punto teoricamente più banale, ma che in realtà rappresenta un primo segnale della complessità antropologica dell’organizzazione eventi: così come un attore o un regista impiegano anni di duro studio e lavoro per affermarsi ed essere in grado di potersi esprimere ad alti livelli, allo stesso modo un manager culturale impiega anni di studio e di lavoro per diventare esperto nella sua tematica, che tra le altre cose prevede anche la direzione di un oggetto complesso come quello di un festival. I festival oggi devono trascendere dalla semplice proposta artistica per parlare anche di dialogo col territorio, audience development, innovazione e coesione sociale, identità, rigenerazione urbana e molto altro ancora; l’italica ricetta invece prevede, nel 90% dei casi, registi/attori/drammaturghi chiamati ad improvvisarsi in un ruolo che non è quello per cui hanno studiato (qualcuno ci riesce meglio e qualcun altro peggio, è vero, ma il problema rimane alla base). Se è pur vero che il management culturale soffre di un grande problema di formazione nel nostro paese (la figura è stata ufficialmente riconosciuta dal ministero solo da poco tempo, tra le altre cose) è anche vero che in Italia figure di spicco ci sono: penso – per citarne qualcuno – ad Umberto Angelini, Agostino Riitano, Massimo Mancini (e il confronto, ad esempio, tra il lavoro compiuto dal Teatro Stabile della Sardegna in termini di qualità artistica, rapporto col territorio, marketing e comunicazione in questi due anni rispetto agli altri ex-stabili è quasi sempre impietoso). È una cosa così logica (il ruolo secondo le competenze) che ci si stupisce che non venga (quasi) minimamente presa in considerazione.
Poi c’è l’anemica crisi del grande festival come concetto, che a mio avviso hanno ancora senso di esistere, ma a patto di rinnovare la propria pelle e confrontarsi con le necessità contemporanee. Festival come Spoleto o Ravello, ad esempio, vivono una situazione complessa in quanto l’accento su cui si basava la loro nascita decenni fa era quello di dare la possibilità di vedere espressioni artistiche afferenti che altrimenti non sarebbe stato possibile vedere o quasi: i grandi del passato, da Brook a Grotowski, da Glass a Sinopoli, dalla Von Trotta a Kiarostami, i festival rappresentavano un modo per portare al pubblico italiano le eccellenze della produzione mondiale artistica, e di permettere ai grandi artisti italiani di confrontarsi e dialogare con essa. Oggi questa cosa non è più fondante, in parte per la costituzione di festival medi e grandi ormai su tutto il territorio nazionale, che tolgono al grande evento quella sensazione di unicum proponendo esponenti nazionali ed internazionali di grande valore, in parte per la globalizzazione e il diminuire delle distanze (andare oggi a Londra o a Parigi per vedere un evento è relativamente facile, e venirne a sapere è semplicissimo, grazie al bombardamento dell’informazione dato dai new media). Quale deve essere lo scopo dei festival oggi allora? Quello di fare da ponte tra il mondo dell’arte e il territorio, di identificarsi con esso e di sviluppare processi di rigenerazione urbana, innovazione sociale, dialogo con il pubblico anche e soprattutto attraverso la proposizione di spettacoli dall’altro valore artistico. Non si ferma alla scelta degli spettacoli, in quanto essi rappresentano un pezzo di un puzzle fatto di dialogo con fruitori e cittadini attivo 365 giorni l’anno e non solo durante il periodo del festival (come fa ad esempio Santarcangelo con Anno Solare, seppur in forma ancora embrionale), formazione, networking, lavoro con il territorio, comunicazione, riutilizzo dei luoghi e degli spazi urbani in una nuova declinazione performativa (il cosiddetto Performing Heritage); e ancora connessioni con le industrie creative (e in particolare il design, inteso come metodologia in grado di cucire su misura – e quindi disegnare – la visione del festival), connessioni identitarie con le persone che fruiscono direttamente o indirettamente dell’evento, che devono sentirlo come parte integrante del proprio essere, e così via. Solo così un grande evento può essere ancora significativo. Il caso di Ravello è in realtà ancora più particolare, in quanto il territorio in cui insiste è un territorio formato al 90% da operatori del settore turistico, a più o meno titolo; è quindi un festival che deve essere pensato e sviluppato in un’ottica di attrazione turistica, poiché questa è la richiesta identitaria del territorio che lo insiste (e non è un caso che quest’anno, ad esempio, nonostante alcuni eventi siano stati di qualità eccelsa anche per una certa capacità di proporre delle novità assolute, come ad esempio il lavoro sulla danza contemporanea, il festival è stato considerato un flop).
Quanto detto finora scalfisce solo la superficie di quella complessa macchina che è l’organizzazione di un festival, anche solo in linea di pensiero; la condizione che viviamo e vediamo (soprattutto nella mia regione, la Campania, ma in generale riscontrabile a più o meno titolo su tutto lo scacchiere nazionale) è invece quella della nomina decisionale, calata dall’alto anche quando c’è un bando, spesso affidata a un “nome” che è uno specchietto per le allodole, mentre invece pensieri e ragionamenti altri dal “portiamo x o y” – indipendentemente dalla qualità di essi – non se ne vedono. Ed è un peccato, perché se questi ragionamenti sono stati ben recepiti nel resto d’Europa e del mondo – penso al lavoro compiuto nella Ruhr o in Estonia, e addirittura formalizzati dalla stessa Unione Europea nel libro verde sulle industrie culturali e creative, ormai dato 2010 (sei anni fa, tanto per dire) – in Italia continuiamo a guardare al passato, alla conservazione piuttosto che all’innovazione, alla forma piuttosto che alla sostanza. Come cantavano i Baustelle in Diorama (titolo non casuale) “fissi dietro al vetro bocca aperta fuori piove il giorno muore ma lo scopriremo poi”.