Lawrence Carroll – In the world I live
Il titolo della mostra è In the world I live, il luogo è la Hugh Lane Gallery di Dublino, l’autore è Lawrence Carroll, classe 1954, madre irlandese e padre australiano, nato a Melbourne, cresciuto e vissuto negli USA, e trasferitosi poi a Venezia nel 2007.
Il titolo della mostra è In the world I live, il luogo è la Hugh Lane Gallery di Dublino, l’autore è Lawrence Carroll, classe 1954, madre irlandese e padre australiano, nato a Melbourne, cresciuto e vissuto negli USA, e trasferitosi poi a Venezia nel 2007.
Trovarsi al cospetto dei lavori di Carroll è un’esperienza un po’ strana: guardi l’opera, ti abbassi, ti sposti, la guardi ancora. Ti ritrovi di fronte a pezzi che suscitano il desiderio di avere l’autore accanto per domandargli cosa, come e perché? Ma l’arte, si sa, ispira domande a cui si possono dare mille risposte, tutte giuste, basta non arrendersi all’inizio e proseguire il viaggio. Carroll stesso vedrebbe con favore il lavoro di ricerca di senso da parte dello spettatore.
Le opere di Carroll possono essere collocate in quello spazio indefinito che si trova tra la pittura e la scultura, potrebbero essere definite come tele scolpite o sculture dipinte, e in entrambi i casi i termini risulterebbero imprecisi, impropri.
Nelle cinque sale dedicate alla mostra, si dipana un’antologia di opere create tra il 1984 e il 2012, dove ognuna è un racconto strettamente connesso a tutti gli altri. Ogni pezzo suggerisce il tentativo di Carroll di raccontare, come dichiara il titolo della mostra, proprio il mondo in cui l’artista vive, a partire dal suo studio. Una storia narrata attraverso oggetti presi da vite passate, inglobati nel lavoro artistico in una sovrapposizione di livelli che aquisiscono e fanno acquisire agli oggetti stessi nuovi significati.
Carroll cita influenze che vanno dal modernismo al minimalismo, il suo lavoro spazia dal piccolo al monumentale, ma stando tra le sue opere, dove si nota una evidente monocromia, si respira sempre una sensazione di quiete. L’idea è che esse siano sincere, prive di travestimento: è evidente il processo con cui sono costruite, nelle loro strutture di legno, nei bordi tagliati grossolanamente, nella scelta dei materiali, nella chiara percezione delle vite vissute dai vari elementi prima di diventare altro. La stessa assenza di colore in realtà è una presenza significante: Carroll ha scelto di dipingere le sue opere proprio con il colore della tela grezza. Quelle superfici sporche, usurate, vecchie, danno una sensazione di provvisorietà ma anche, paradossalmente, di stabilità. Quella stabilità che sta nel perdurare, nel non finire, nel proseguire, al termine di un ciclo vitale, con un ciclo vitale nuovo, in un altro spazio e in un altro tempo.
Evidente l’opera di decostruzione e ricostruzione attuata dall’artista sulle sue tele, tagliate e reincollate, e sui supporti stessi delle opere, fatti a pezzi e riassemblati.
Le sue “Page Paintings” fuoriescono dalle pareti bianche, ma non hanno una facciata, quindi richiedono il movimento di chi guarda. Le sue tele si fanno contenitori di oggetti e di significati – pane, scarpe, secchi che a loro volta contengono foglie, altre scarpe – inglobandoli. La sua ricerca nel modo in cui un oggetto può diventare parte di un’opera è parte integrante di tutto il suo lavoro. Carroll ha spiegato così l’utilizzo di materiali diversi e oggetti d’uso comune, all’interno delle sue opere: «It is not about the survival of materials. It’s about the survival of their meaning».
I suoi stivali, nell’opera “Freezing shoes”, logori, vecchi, e consumati non sono messi da parte, ma entrano in una teca ricoperti da una patina di ghiaccio che sembra volerli e poterli preservare per sempre.
L’opera “Closet” esaspera il concetto di tela che diventa supporto e contenitore. Closet significa armadio. E di un armadio si tratta, che si apre e si chiude e che contiene oggetti, come scatole di legno, una spazzola, un cuscino, quadri, barattoli e un paio di scarpe molto speciali. Nei primi anni Ottanta, Carroll scrisse a Robert Rauschenberg, artista, pittore e fotografo statunitense, chiedendogli un paio delle sue scarpe. La sua idea era questa: così come Rauschenberg aveva letteralmente cancellato un disegno di Willem de Kooning, inglobandolo di fatto nel processo creativo e creando così l’opera “Erased De Kooning”, Carroll aveva intenzione di inglobare le scarpe di Rauschenberg nella sua opera. Dopo anni di tentativi e fallimenti, anni in cui le scarpe erano rimaste nello studio, dopo che lo stesso Carroll le aveva indossate una volta e ci aveva danzato, ecco che finalmente avevano trovato una propria collocazione.
In altre opere come “Victory” Carroll usa delle lampadine accese che danno un senso all’opera, e continuano a darglielo, in maniera differente anche quando si fulminano, seguitando la propria vita all’interno dell’opera, e raccontando una storia diversa.
Non a caso Carroll si riferisce a se stesso definendosi come uno storyteller, le sue opere sono tasselli narrativi, che attraverso un linguaggio che si arricchisce nel lavoro di ricerca continua, rappresentano il mondo e la condizione umana. La mostra resterà alla Hugh Lane Gallery di Dublino fino al prossimo 10 febbraio, dopodiché si sposterà a Palma de Mallorca.