Il “potere” di Luc Delahaye. L’arte della fotografia di guerra.
Arte, reportage, guerra e umanità: sono questi gli elementi della fotografia di Luc Delahaye, l’artista francese vincitore del Prix Pictet Award 2012
Arte, reportage, guerra e umanità: sono questi gli elementi della fotografia di Luc Delahaye, l’artista francese vincitore del Prix Pictet Award 2012 (The Global Award in Photography and Sustainability), che quest’anno ha scelto il tema del “potere”. Consegnato il 9 ottobre da Norman Foster durante una cerimonia alla Saatchi Gallery, il premio è stato conferito per “l’eccellenza artistica, intensità drammatica e potere narrativo” del lavoro, ha spiegato il presidente della giuria David King.
Negli anni Ottanta Delahaye aveva iniziato la carriera di fotogiornalista con Sipa Press e poi Magnum Photo, distinguendosi per i suoi reportage di guerra in Libano, Afghanistan, Yugoslavia, Ruanda e Cecenia (è stato tre volte vincitore del World Press Photo). Negli ultimi dieci anni la sua fotografia si è trasformata in qualcos’altro: la ricerca di un vero e proprio artista, che riflette sulla relazione tra arte, storia e informazione. Una scelta difficile e ambiziosa che ha portato il fotografo in numerosi teatri di guerra e attraverso la Russia messa in ginocchio dalla crisi ecomomica (Winterreise”: A Winter Journey Through Russia, 2003), ma è stata premiata da riconoscimenti internazionali e mostre prestigiose in tutto il mondo tra cui una personale al Getty Museum di Los Angeles nel 2007.
Lo sguardo distaccato di Delahaye è una delle qualità più evidenti del suo lavoro, e lo rende potente e straniante al tempo stesso. “Generalmente rimango a una distanza da cui le relazioni umane siano visibili, multiple, attive e problematiche”, ha dichiarato l’artista in occasione del Prix Pictet, “in realtà non fotografo il mondo così com’è, ma come non dovrebbe essere – difficile – o come dovrebbe essere – l’uomo restituito alla storia”.
Questo nuovo premio ribadisce l’indiscussa potenza dell’opera di Delahaye, ma solleva anche qualche perplessità: è un lavoro che si colloca tra fotografia d’arte e reportage, con tutte le contraddizioni che ne conseguono, sottolinea Sean O’Hagan sul quotidiano “The Guardian”. Le sue immagini di grande formato diventano problematiche, osserva il critico britannico, quando vengono presentate fuori dal contesto di una mostra sulla fotografia di guerra ed entrano in una galleria d’arte o un museo.
Difficile raccontare il dolore umano senza esibirlo. Ancor più difficile esibirlo senza aprire il dibattito.