#INDIaloghi – Intervista a Carlo Ziviello
Per il ciclo INDIaloghi tocca a Carlo Ziviello, socio della casa editrice campana Ad Est Dell’Equatore, rispondere ai quesiti di Scene Contemporanee.
Ad offrire il proprio punto di vista sullo stato dell’editoria italiana, rispondendo alle domande di Mariangela Sapere, è Carlo Ziviello della casa editrice partenopea Ad Est Dell’Equatore.
Quando si parla di editoria, è inevitabile che vengano fuori i concetti di “crisi” e “sopravvivenza”. Subito dopo si menziona l’esiguo numero di lettori a cui fanno da contraltare le circa settemila case editrici italiane. Da dove si comincia?
Non si dovrebbe neanche cominciare, infatti. Ma una volta partiti, è un viaggio così stimolante che non ha più senso fermarsi. Almeno finché si riescono a tenere i conti a zero, entrate uguale uscite, queste cose qui. Basta scordarsi del profitto; di quella equazione, nata con la rivoluzione industriale e rafforzatasi con il fordismo, che dice lavoro=guadagno. È un concetto obsoleto ormai, il profitto da lavoro. Ci sono altre attività oggi che generano profitto: poche legali, pochissime eticamente accettabili e comunque non alla portata dell’uomo comune. Oggi il lavoro è un bene di lusso – lo ha scritto anche Rifkin qualche anno fa ne La fine del lavoro; lo ha confermato Claus Offe da tutt’altra posizione politica. Pochi lavorano e ancora meno lavorano per soldi. Gli editori sono tra i primi ad averlo capito, soprattutto i piccoli. Così ci stiamo adattando a questa nuova era. Il piccolo editore è a uno spartiacque evolutivo. Può estinguersi o diventare una specie d’avanguardia, forse il primo tipo di lavoro completamente slegato dal concetto di retribuzione. Se qualcuno ha la malaugurata idea di acquistarti, bene. Sennò continui il tuo viaggio senza guardarti troppo indietro e nemmeno avanti. Devi però guardarti intorno. È lì che c’è la sopravvivenza. Nel presente. Nelle comunità di lettori. Nell’affetto degli autori. Nell’andare controcorrente rispetto alle regole consolidate che nella maggior parte dei casi ti tirano a fondo. D’altra parte, guardando i nostri bilanci 2013, è la prima volta, dopo 5 lunghissimi anni e in piena crisi che chiudiamo in pari. In pari, cioè non perdiamo. E pareggiare oggi vuol dire aver battuto il Brasile al Maracanà per 4 a zero. Qualche giorno fa ho avuto modo di leggere i bilanci di sei grandi gruppi editoriali italiani. Li trovate qui. Fatte le debite proporzioni, e senza televisioni, giornali, premi ecc. stiamo meglio del gruppo RCS. Anche meglio di Mondadori. Non mi pare una cosa da poco…
Editori che sono in realtà tipografi, scrittori che vogliono pubblicare a tutti i costi. Successi determinati dal marketing. C’è il rischio che i veri capolavori restino invisibili?
No. Il vero capolavoro prima o poi emerge. Solo, ci vuole tempo. Ma è sempre stato così. Non è cambiato niente, in proporzione, rispetto al passato. Alcuni libri hanno successo subito, altri vengono scoperti o riscoperti molto tempo dopo. Anni fa si pubblicava infinitamente di meno, ma erano anche molti di meno gli scrittori e soprattutto i lettori. E prima ancora il 98% della popolazione era analfabeta. Poi c’è un’altra cosa: i lettori italiani sono terribili. Non leggono per hobby, come in America, per dire. Leggono per piacere. E se non gli piace quello che leggono non ti perdonano. Quel lettore l’hai perso per sempre. Si può creare il fenomeno con il marketing, ma solo per il primo libro. Se è una truffa, il secondo libro non venderà niente. E non si può andare avanti a forza di creare fenomeni, anche perché è costosissimo crearli. Serve la televisione, servono i giornali, servono cose che costano più di quello che fanno guadagnare. L’Italia, poi, soffre di più rispetto al resto del mondo. Anzitutto per la lingua, che è parlata solo in Italia e nel Canton Ticino (e qui scappa un sorriso). Pensiamo alla fortuna che ha un editore di Buenos Aires, per dire, o di Santiago del Cile che può essere letto indifferentemente a Madrid come a Tijuana come a Luzon. Infine, abbiamo uno dei rapporti popolazione/lettori più sfavorevoli e al contempo siamo uno dei paesi che sforna il maggior numero di titoli al mondo per anno. Una contraddizione che si può spiegare solo con le solide fondamenta di anarchia che reggono il nostro paese, per le quali siamo tutti commissari tecnici, presidenti del consiglio, scrittori e da un po’ anche editori.
I piccoli editori di qualità si riconoscono perché spesso fungono da incubatrici per autori che poi esplodono e migrano (due esempi dal vostro catalogo Marco Marsullo, Francesco Consiglio). In questo modo il piccolo editore, seppur orgoglioso, resta sempre tale. È impossibile fare il salto?
È molto difficile. Non esiste un sistema creditizio che ti supporta, né esistono leggi a sostegno dell’editoria. Puoi indovinare un titolo che vende ma per fare il “salto” serve continuità. Occorre avere tutti i titoli del catalogo annuale che superano le due/tremila copie di vendita per anno con punte di 5mila. Un obiettivo al giorno d’oggi utopistico per un piccolo. Una volta si poteva sperare di essere acquisiti da un grande gruppo ma, come dicevo prima, pare stiano peggio di noi. In più, per un piccolo campano, le cose si complicano ulteriormente: mancano difatti in regione grandi (e anche medi) editori di riferimento e in salute che potrebbero tirare la volata anche ai piccoli in termini di distribuzione e di vendite.
Come editori indipendenti state collaudando il concetto di produzioni dal basso. Il potere va alla community di lettori che fa una specie di promessa di acquisto. Come procede l’esperimento? Altri progetti per il futuro?
Le produzioni dal basso non sono più un esperimento, sono una realtà. Il meccanismo è totalmente volontario ed è giusto che il potere lo abbia il lettore. L’importante è che usi il potere di cui dispone. Se la community sostiene quel libro vuol dire che quel libro ha già un gruppo di potenziali, entusiasti acquirenti; vuol dire che sta già facendo parlare di sé, ha già creato un’aspettativa. Per noi il lavoro è lo stesso: lo leggiamo, lo valutiamo, lo editiamo, realizziamo la copertina e, se non raggiunge interamente il budget ma la risposta del pubblico è positiva, pubblicarlo ugualmente diventa un rischio calcolato. Il concetto di crowdfunding è ormai diffusissimo all’estero. In America ci finanziano di tutto: dai maccheroni biologici ai dispositivi di realtà virtuale alle istallazioni d’arte. Abbiamo organizzato una mostra fotografica dedicata alla tragedia di Fukushima di un fotografo danese, Kasper Nybo, completamente finanziata dal crowdfunding (danese, in questo caso). E d’altra parte, se il credito bancario non esiste, non esistono leggi a sostegno dell’editoria e non chiedi soldi agli autori, la soluzione di affidarsi alle vendite – e alle prevendite – mi sembra quella più ovvia: sopravvive chi viene letto. Trattandosi di editoria, mi sembra del tutto lineare…