Vetrina. “Vite pericolose di bravi ragazzi”
Un romanzo di formazione ambientato nell’America degli anni Settanta vicinissimo, per atmosfere, ai racconti di Stephen King.
Impossibile scindere la lettura di questo romanzo dalla storia del suo autore. Chris Fuhrman è, sicuramente, un nome ignoto alla maggior parte di noi perché ha scritto questo unico romanzo prima di essere stroncato da un cancro all’età di 31 anni. Uscito in Italia solo nel 2013 (negli Stati Uniti è stato pubblicato postumo nel 1994), Vite pericolose di bravi ragazzi merita una lettura per più di un motivo. Il primo è sicuramente la scrittura che si sviluppa lieve, eppure incisiva, riuscendo a narrare episodi estremi e mescolandoli con piccoli particolari quotidiani, facendo perdere loro la tragicità che li contraddistingue ma lasciando il lettore in una sorta di malinconia sospesa, come se avesse assistito a qualcosa di estremamente importante senza essere riuscito a metterlo veramente a fuoco ed a coglierlo in tutta la sua profonda atrocità. Ogni cosa in questo romanzo pare scivolare via come la quantità di alcoolici che i giovanissimi protagonisti trangugiano ad ogni occasione ma, esattamente come l’alcool, la scrittura di Fuhrman lascia quel retrogusto amaro, quasi anestetizzante, che ci fa solamente percepire il dolore profondo che gli eventi descritti sottendono.
Il romanzo, ambientato nel 1974 in Georgia, narra la vita di un gruppo di ragazzini alle soglie dell’adolescenza, educati in una scuola cattolica e paradossalmente (ma forse nemmeno più di tanto) atei. Narra, soprattutto, ciò che li lega l’uno all’altro, quel bagaglio di esperienze comuni e di prime volte che cementano l’amicizia esclusivamente in quel particolare periodo della vita di ognuno di noi. Racconta storie di violenza familiare, accettata come normale e neppure messa in discussione, e, parallelamente, la nascita di un amore tenero ed intenso come solo il primo amore può essere. E, alla fine, riesce pure a metterci di fronte alla morte, rappresentata in tutta la sua evidente ingiustizia. L’intera vicenda narrata è una parabola tragica che procede ineluttabile verso un finale che ne è la naturale conclusione. E, forse, proprio in quel finale sta la debolezza del libro che, a quel punto, si sposta sul territorio dello scontato – pur senza scivolarci completamente. E non è da escludere che proprio quel finale avrebbe potuto essere oggetto di revisione da parte del suo autore, che ci lavorò fino all’ultimo giorno di vita. Ed è inevitabile pensare alle possibilità che un romanzo di esordio del genere lascia presagire e rammaricarsi per la prematura scomparsa di chi l’ha scritto, la cui felicissima prosa avrebbe potuto regalarci storie ancora più potenti e necessarie di questa.
- Genere: Romanzo
- Altro: Traduzione di Clara Ciccioni