Presentazione di “Da quella prigione. Moro, Warhol e le Brigate Rosse”
Gli interventi di Andrea Cortellessa, Miguel Gotor e Bruno Manfellotto in merito all’ultima, originale pubblicazione di Marco Belpoliti
Il rapimento di Aldo Moro, la claustrofobica prigione del popolo, il realismo traumatico impresso nelle immagini fotografiche, sono i punti dell’ultimo saggio di Marco Belpoliti per Guanda Editore. Un’analisi semiotica in cui l’autore associa la pop art di Andy Warhol al terrorismo delle Brigate Rosse. Dalle modalità di utilizzo della Polaroid in quegli anni, il libro apre una prospettiva sul caso Moro fino ad un’ampia finestra sull’immaginario collettivo italiano.
La presentazione di Da quella prigione. Moro, Warhol e le Brigate Rosse è l’occasione per riflettere su come le foto della detenzione di Aldo Moro abbiano segnato la storia d’Italia. Presso la libreria indipendente Arion di Roma, il 22 novembre scorso, sono intervenuti al dibattito Andrea Cortellessa, Miguel Gotor e il direttore de “L’Espresso” Bruno Manfellotto. I relatori hanno esposto diverse argomentazioni sulla vicenda, elogiando il punto di vista “strabico” dell’autore.
Belpoliti ci conduce in una contemplazione intrecciata fra visualità e letteratura. Già in passato ha consolidato questo metodo con monografie come Il corpo del capo, Pasolini in salsa piccante e La canottiera di Bossi. Lo studio biovisuale dedicato a Moro è la consacrazione del modello di analisi dell’autore. Andrea Cortellessa, critico letterario e docente all’Università di Roma Tre, ripercorre l’analisi dell’autore sulla Polaroid e l’uso fatto da Warhol. L’artista americano riteneva che quella foto, scattata e subito pronta, senza alcuna camera scura, potesse depersonalizzare il soggetto e definirne i tratti estetici identificativi – non è un caso che i modelli di Warhol siano stati dei personaggi noti. Le BR avevano intuito che con il trattamento iconico su Moro era possibile abbattere la sua persona, quindi la Democrazia Cristiana e, automaticamente, l’autorità e lo Stato. Una fotografia come strumento militare-simbolico che detronizza il personaggio dall’uomo e diventa foto segnaletica, come quella utilizzata per i detenuti. Ma Moro ha vinto: se nella prima foto l’effetto di scardinamento dell’individuo ha successo, nella seconda si difende d’istinto quando, con l’occhio sinistro, si discosta dall’obbiettivo, generando uno sguardo strabico, asimmetrico, che buca la prigione semiotica delle BR.
Secondo Miguel Gotor, docente di Storia moderna a Torino, Marco Belpoliti ha uno sguardo dissonante e al contempo laterale che consente di leggere dalla staticità della foto, del Moro immobile e presumibilmente vivo, un dinamismo rivelatore contenuto nei dettagli dell’immagine. Con il lavoro svolto in Da quella prigione, la foto conservata nella memoria collettiva non sarà più la stessa poiché, acquisendo nuove sfumature, apre nuovi scenari sul caso. Lo sguardo di Moro, quell’occhio sinistro che evade dall’obbiettivo, è la difesa del sé, è una forma d’arte di salvaguardia semiotica.
La terza parte del testo di Belpoliti è dedicata all’estetica razionale e interpretativa dell’arte rispetto alla vicenda. Il finale del film di Marco Bellocchio dedicato al caso Moro è un rifiuto della realtà, un “se” che rompe la storia razionale e formale per mostrare la sofferenza di una generazione. Miguel Gotor conclude dicendo che quell’episodio ha significato non solo la morte di Moro ma anche della Prima Repubblica in Italia.
Dal canto suo, Bruno Manfellotto vede nello sfuggente occhio sinistro di Moro l’essere umano che non vuole essere né vittima né, tantomeno, despota. Un atteggiamento umano che è confermato dalle lettere scritte da Moro alla moglie. Anche nel corpo di Moro si percepisce la cultura estetica democristiana di quegli anni: la camicia sbottonata nella foto vuole indicare il distacco dal personaggio politico composto in favore di un’umanizzazione estetica necessaria per sopravvivere. Il corpo di Moro, quando fu ritrovato nella Renault 4 rossa, aveva il cappotto. Il cappotto era l’elemento caratterizzante del Moro politico, come gli occhiali per Andreotti e le giacche per Scalfaro. Tutto ciò mostra la capacità di Belpoliti di analizzare il dettaglio e renderlo strumento di analisi per il generale.
Il testo appare breve ma intenso, tanto razionale quanto emotivo, costruttivo su quegli aspetti tralasciati della storia, focalizzante e connettivo fra modelli e culture apparentemente distanti come la pop art americana e il brigatismo italiano. In Da quella prigione c’è il segno di un’apertura, di un grimaldello che consente al lettore di entrare nella prigione del popolo e comprendere l’Aldo Moro uomo, arguto difensore dell’umanità dall’attacco terrorista.