Arti Performative

Olivier Dubois // Auguri

Valentina Crosetto

Prigionieri della corsa: “Auguri” di Olivier Dubois, andato in scena in prima italiana a TorinoDanza Festival


Recita un passaggio del dialogo L’anima e la danza di Paul Valéry (1921) che l’occhio freddo della ragione può guardare «la danza come una straniera dallo spregevole linguaggio e dai costumi assurdi» perché la ragione «sembra essere la facoltà della nostra anima di non comprendere nulla del nostro corpo».[1] Con questa affermazione Valéry dichiarava l’inadeguatezza della ragione a cogliere il sentimento di assoluto inscritto nella danza, quell’infinita gioia, l’esaltazione, quella vibrazione della vita che fa brillare quanto vi è di divino in una creatura mortale. La danza è presenza, gratuità, evento divino che trova significato in se stesso, perché trae il suo senso dal semplice fatto che è ciò che è; pur non avendo uno scopo fuori di sé, ha il potere di lasciarcene percepire la portata filosofica, estetica e mistica. Talvolta, poi, il divario tra il nulla e il divino è talmente sottile da sfuggire a una comprensione chiara e immediata: allo spettatore è richiesto uno sforzo interpretativo che sconfina nell’immaginazione per mettere ordine a quanto accade sotto i suoi occhi. Auguri di Olivier Dubois non fa eccezione: l’invenzione di una partitura di pura tensione, di una corsa all’infinito, di una fuga a perdifiato, che travolge i sensi e crea nuovi arcobaleni di conoscenza possibile, stupisce e disorienta chi voglia seguirne le continue contrazioni e distensioni.

Presentato in prima italiana a TorinoDanza Festival in collaborazione con “La Francia in scena” e prodotto dal Centre Chorégraphique National di Roubaix/Ballet du Nord di cui Dubois è direttore dal 2014, Auguri rappresenta il punto d’arrivo di una tecnica coreografica affinata negli anni – dopo le creazioni Révolution (2009), Rouge (2010) e Tragédie (2012) – intorno ai principi primari del movimento. L’ossessione per il gesto ripetuto e studiatissimo, la trasparenza del disegno casuale eppure inesorabile, la crudeltà del dinamismo teso fino all’inverosimile dialogano perfettamente con la sinfonia martellante e glaciale di François Caffenne e le luci asettiche di Patrick Riou. Nella semioscurità di una scena occupata da quattro schermi in tridimensione, si distingue appena, come una fiammata, la chioma vermiglia di Karine Girard, fiera come una guerriera in avanscoperta. La sua fulminea apparizione è il segnale, o meglio, l’“augurio” (come si evince dal titolo che rimanda agli “àuguri”, sacerdoti che nel mondo latino predicevano il futuro sul volo degli uccelli migratori) di un’epifania, di un atto divinatorio che coinvolge un drappello di 22 danzatori e che sembra ripercorrere le stesse traiettorie dei volatili nel cielo. Scappano, si radunano, sgomitano, si inseguono, cadono e si rialzano, si lanciano in una direzione precisa e tornano indietro sui propri passi, esplorano la profondità dello spazio ma anche la verticalità, percorrono geometrie predefinite ma insondabili, si infiltrano nelle fessure degli schermi o ne fuoriescono come magma di corpi attirati al suolo dalla gravità.

In questa odissea senza fine, dove la corsa non rallenta né si interrompe, l’ostinazione allo sforzo fisico (per questa prova gli interpreti si sono allenati con un trainer specializzato nella preparazione dei 400 metri) è solo una delle varianti delle forzature coltivate da Dubois: come quando costringeva le sue danzatrici a ruotare incessantemente intorno a un palo da pole dance sulle note del Boléro di Ravel (Révolution) o organizzava marce interminabili dal fondo della scena al proscenio per 18 danzatori, uomini e donne, completamente nudi (Tragédie). In Auguri, però, Dubois cerca un’attribuzione di senso che vada oltre il semplice invito alla sensazione: la corsa dei danzatori rappresenta lo slancio dell’umanità verso la felicità, quel godimento «finito dell’infinito» (volendo citare Alain Badiou, di cui forte è l’eco nel lavoro di Dubois) che permette di trasformare ciò che prima apparteneva al piano dell’impossibilità in un “reale” effettivo. Certo, non sappiamo se questa ascesa “platonica” nell’idealità si realizzerà davvero perché il finale resta irrisolto, la conquista sospesa in una corsa all’infinito. Ma non è proprio questo il destino dei vivi? Affannarsi alla ricerca della felicità anche quando il mondo non fa che promettere il contrario.     

 

[1] La traduzione del dialogo L’anima e la danza di Valéry si trova in P. Valéry, Tre Dialoghi, trad. it., Torino 1990, p. 23.


Dettagli

  • Titolo originale: Auguri

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