Arti Performative

Lenz Fondazione // Macbeth

Renata Savo

Durante la XXI edizione del Festival Natura Dèi Teatri di Parma ha debuttato il 26 giugno l’ultima produzione targata Lenz Fondazione: Macbeth.


 

Dopo le precedenti escursioni shakespeariane attraverso i vari studi, installazioni, di Hamlet, fino ad arrivare, nel 2012, alla produzione andata in scena negli spazi del Teatro Farnese e del Palazzo della Pilotta di Parma, e prima ancora, attraverso un Re Lear filtrato dall’Opera di Verdi e dalla collaborazione tra il Conservatorio di Musica “A. Boito” di Parma e il tappeto sonoro elettronico di Robin Rimbaud aka Scanner, Francesco Pititto e Maria Federica Maestri hanno affrontato la più breve delle grandi tragedie del Bardo inglese in occasione dei quattrocento anni dalla sua morte: Macbeth.

Anche questa volta, la forma e il taglio in cui l’opera è stata affrontata da Lenz Fondazione per la XXI edizione del festival Natura Dèi Teatri non sono passati di certo inosservati. Prediligendo una linea che ricorda quella adottata per la prima volta dalla maestosa interprete Adelaide Ristori nel 1857, questa riscrittura del Macbeth pone al centro la figura della Lady moglie del protagonista come trainante psicologico di un agire malsano, e il momento del sonnambulismo: in cui la mente annebbiata dal senso di colpa tormenta l’”inconscio” ante litteram della coppia e si traduce in manifestazione di pazzia dell’unico corpo in carne e ossa presente sulla scena, quello femminile, che nella verità della non-rappresentazione coincide anche con il solo riconosciuto socialmente sano in mezzo alle proiezioni spettrali e visionarie di uno spazio simbolicamente fondato sull’illusione e abitato dalla presenza in video degli “attori sensibili”. Non un semplice negativo della realtà quindi, quello portato sulla scena da Lenz Fondazione, ma una realtà di segno (e sogno) positivo, che scuote lo spettatore come dentro a un Teatro della Crudeltà esposto nelle artaudiane teorie.

Non c’è traccia della linearità narrativa, e questo dato procura senz’altro smarrimento forse voluto e atteso dalla compagnia, ma di fatto rende difficile la comprensione dell’operazione di (ri)scrittura scenica allo spettatore meno informato sulla vicenda. La performance, proprio come la scena, è cristallizzata in un agire ciclico e fine a se stesso che si riflette su più livelli – sonori, visivi e performativi – negli spostamenti della Lady interpretata da una Sandra Soncini coi capelli raccolti in una spessa, bionda e lunga treccia; figura che, oscillando tra bidimensionalità onirica e la tridimensionalità della presenza immersa nella fioca luce, pare essere uscita dallo schermo cinematografico dell’inquietante pellicola The Others firmata Alejandro Amenábar.

La drammaturgia sonora, cupa e graffiante, qui curata dal compositore Andrea Azzali, gioca un ruolo fondamentale nella ricerca dell’effetto, sottolineando la ripetizione ossessiva e maniacale di frasi, echi, che sublimano la visione nella configurazione dello spazio scenico come prigione claustrofobica e mentale in cui rinchiudere le fantasmagorie iconiche dei personaggi. Le sonore visioni, i suoni materici, contaminano i sensi e infettano le pareti dove sono proiettati i volti in primo piano dei pazienti delle nuove Rems – residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria – la cui apertura ha sancito l’inizio di un momento storico cruciale per la gestione sociale della follia, che Lenz ha voluto in un certo senso omaggiare servendosi del contributo del Dipartimento di Salute Mentale dell’AUSL di Parma: dal 31 marzo 2015, infatti, la Regione Emilia-Romagna si è impegnata nel trasferimento dei pazienti detenuti negli OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) in queste nuove strutture di accoglienza, proprio in provincia di Parma, a Mezzani.

In questo Macbeth, come nell’altra produzione andata in scena durante il festival, Il Furioso (2), l’elemento irrazionale e soprannaturale dell’opera shakespeariana – coincidente con la sete di potere, con l’ambizione, che, aizzate dalla profezia delle streghe e poi dalla compagna, conducono Macbeth all’assassinio del Re Duncan – viene enfatizzato dalla drammaturgia verbale sia nella reiterazione dei versi («Macbeth ha ucciso il sogno. Lui più non potrà dormire») sia nella produzione di senso che investe in egual misura personaggio (o meglio, Figura) e “attore sensibile” che lo interpreta («Sei matto a dire questo?») dentro l’innocenza del dispositivo teatrale che mescola sogno e realtà senza soluzione di continuità. La stessa sovrapposizione di piani si attua, infatti, anche nell’invito della Lady rivolto agli spettatori a non fissare il volto arcigno di Macbeth, veicolo espressivo di una paradossale freddezza emotiva dell’attore sensibile, durante quella che, se ricordiamo bene, dovrebbe evocare la scena del banchetto in cui si palesa al nuovo Re Macbeth l’ombra di Banquo, l’amico da lui assassinato («State seduti, amici. Il Re è spesso così. Non lo guardate, non lo fissate»). L’inconsolabilità che deriva dall’essere ignorati dalla società, proprio come sono state le persone rinchiuse per decenni negli ospedali giudiziari, si realizza nel microcosmo della scena mediante l’assunto che «la vita è davvero un’ombra che cammina e l’attore un povero idiota che fatica a raccontarci il niente».


Dettagli

  • Titolo originale: Macbeth

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