Il ricordo di Bejaïa: un’altra platea. Un altro teatro?
«Abbiamo bisogno di questo», è la frase che più spesso ho sentito ripetere dal pubblico di giovani e vecchi, uomini e donne, all’uscita dagli spettacoli. «Questo», il teatro.
Qualche mese fa ho avuto l’opportunità di partecipare al Festival Teatrale Internazionale di Bejaïa, importante porto africano affacciato sul Mediterraneo. In scena, compagnie provenienti un po’ da tutto il mondo. Ne scrivo qui, ora, con l’augurio per il nuovo anno che la passione per il teatro possa farsi sentire più forte dell’anno che l’ha preceduto, magari guardando al di là del proprio naso, e, indirettamente, pensando alle ragioni che spingono ancora gli uomini a fare e a guardare il teatro nonostante le sue continue minacce di morte in un’era iper-tecnologica, iper-industrializzata, iper-informatizzata, e chi più ne ha più ne metta.
Vi spiego, allora, che cosa ho visto in quell’occasione particolare, dall’altro lato del Mediterraneo.
Lo spettacolo di apertura del Festival, ad opera della compagnia locale e per la regia di El Hadi Cherifa, ha spalancato le braccia alle opere straniere tramite un colorato e gioioso incontro di danze tradizionali e contemporanee, per poi lasciare spazio al racconto del primo giorno di una guerra che tarda a scomparire dalle strade e dai ricordi delle nuove generazioni.
Così il tema della guerra tornava nella messa in scena serba, in Cabaret contre la guerre e in quella tedesca di Lydia Ziemke, con un potente monologo dove l’artista si interroga sul proprio ruolo in una società che rischia di sommergerlo mortalmente. L’Egitto proponeva una versione di No Exit di Sartre, mentre il Portogallo ha incantato la platea con un Amore e Psiche coreografato da Nélia Pinheiro.
Una parte di mondo, dunque, accolto in una manciata di teatri sparsi sulla costa.
Se quel che si è avvicendato sul palcoscenico è stato di indubbio interesse, comprese le disparate tecniche attoriche di cui ho potuto osservare frutti così eterogenei, vorrei però, come accennato, soffermarmi su ciò che avveniva dall’altra parte, in platea.
Bejaïa è sede di una delle università più antiche del bacino mediterraneo, culla della cultura del popolo Cabil, inizialmente nomade, stanziatosi sulla costa. Una cultura colorata, vivace, mediterranea per eccellenza, una cultura il cui sviluppo ha visto l’arrestarsi repentino dovuto alla guerra, e la rinascita, la reazione alla paura gridata dai suoi giovani.
«Abbiamo bisogno di questo», è la frase che più spesso ho sentito ripetere dal pubblico di giovani e vecchi, uomini e donne, all’uscita dagli spettacoli. «Questo», il teatro. Il bisogno di teatro è un bisogno primordiale che ha l’essere umano di raccontarsi, unirsi, amarsi, un bisogno che in troppe sale europee si è trasformato nel simbolo di uno status sociale, il segno di appartenenza a un’élite. Penso alle parole spese sui libri di storia del teatro per raccontare il pubblico di Shakespeare, il pubblico della Commedia dell’Arte, quello rissoso e spaventato dei primi cinematografi, e poi ricordo le logge di Bejaia, ragazzi seduti gli uni sugli altri, a guardare per ore spettacoli in lingue incomprensibili, ad accerchiare i pochi di loro che di quella lingua avevano studiato i rudimenti a scuola, e che riuscivano a carpire qualche parola qua e là (la lingua madre degli abitanti di questa zona è il Cabili, un dialetto berbero, mentre l’arabo è insegnato nelle scuole come lingua nazionale); li vedo indovinare la trama, reagire urlando, ridendo, ballando. Li vedo e capisco che cos’è che manca all’attore, troppo spesso.
All’attore manca il pubblico, quello vero, quello che si alza e ti manda a farti benedire se ti stai risparmiando, e quello che suda con te, e gode con te quando trovi il coraggio di darti.
Il punto è: quanto tutti gli approcci di recitazione possibili possano reggere davanti a un pubblico del genere. Un pubblico che non parla la tua lingua, e che ha un bisogno reale di un’arte che possa dare ossigeno alla propria crescita artistica.
Questa forse è la verifica finale, il banco di prova reale per dire sì, questo spettacolo funziona, o no, non c’ero là sopra, era un bluff.
Perché alla fine della storia, ogni pensiero artistico, stile, o teoria sul teatro, si basa sul presupposto che debba esserci un destinatario. E non importa quanto il messaggio si sia sgretolato, quanto la realtà sia effimera, quanto l’emittente sia confuso, morto o latitante, il destinatario continua ad essere reale, presente, anche in assenza di tutti gli altri componenti della macchina teatrale. E ha il diritto di guardare, ascoltare, e cambiare.
Ha bisogno di essere preso in considerazione, di essere raggiunto, con tutti i mezzi e le tecniche possibili, certo, ma non dimenticando mai che l’obiettivo finale è fuori, al di là delle tavole di cui ogni attore è segretamente innamorato, al di là di se stesso, e, come ci auguriamo, del proprio tempo.