Arti Performative Focus

The Rite of Spring | She She Pop, le madri, e il reality trend

Renata Savo

La visione a Short Theatre 10 dello spettacolo The Rite of Spring, portato in scena dal collettivo berlinese She She Pop e dalle loro madri, ci offre la possibilità di parlare di un movimento nato in Germania che ha avuto molta influenza in Europa: il reality trend

A Short Theatre 10 abbiamo avuto la fortuna di conoscere il lavoro di uno dei collettivi teatrali più interessanti della Germania. Costituitosi nel 1998 durante gli anni di studio all’Università di Giessen, oggi, She She Pop, composto da membri originari di Berlino e di Amburgo, rappresenta insieme ai Rimini Protokoll, René Pollesch e Christoph Schlingensief il movimento definito dalla rivista «Theatre der Zeit» “reality trend”.

Gli artisti che appartengono al reality trend prelevano informazioni dalla realtà attraverso complessi e problematici processi creativi. Il teatro come medium diventa spazio, confine entro il quale persona e personaggio, vita e rappresentazione, sfera pubblica e privata vengono in molti punti a coincidere.

Questa sete di realtà non si registra solo nelle arti performative. Una vera e propria corrente di pensiero attraversa la Germania, ma anche altre parti d’Europa. Persino in Italia, il filosofo Maurizio Ferraris ha sostenuto negli ultimi anni la rinascita, dalle ceneri del postmodernismo, di un Nuovo Realismo (si veda il suo Manifesto del Nuovo Realismo, pubblicato nel 2012): un movimento filosofico basato sull’assunto che la realtà non sia mai data, ma è il frutto di costruzioni concettuali capaci di sostituirsi a lei (si pensi ai numerosi populismi mediatici, alle tante realtà edificate da chi ha più potere, da chi controlla l’economia), che determinano un mondo senza certezze e in continua trasformazione.

L’arte, il teatro, il cinema dal loro canto hanno reagito ai rapidissimi cambiamenti tecnologici e sociali cercando di introiettare nei rispettivi linguaggi dati, situazioni reali che esigono un “atto di fede” da parte del fruitore (lo spettatore deve sforzarsi di credere che tali dati, situazioni, affermazioni siano autentiche, vere, come se ci si trovasse a leggere una notizia di cronaca su un quotidiano). E’ quanto accaduto nel mondo del cinema: si pensi non solo all’incremento di biopic nominati alla scorsa edizione degli “Academy Awards”, ma soprattutto al successo di un prodotto come Boyhood di Richard Linklater che ha visto una fase di lavorazione lunga dodici anni, durante la quale gli attori sono cresciuti insieme ai personaggi: le trasformazioni fisiche che i primi hanno subìto in modo permanente con il passare del tempo sono confluite integralmente nell’immagine transitoria dei personaggi che hanno interpretato.

Nel teatro, invece, abbiamo gruppi come Rimini Protokoll e She She Pop: lavorano con attori non professionisti che interpretano se stessi e il ruolo che ricoprono nella società; anzi, detto in altri termini, non sono “non professionisti” ma, piuttosto, “professionisti della vita quotidiana” (experts of the everyday). Si arriva con loro, She She Pop, a lavori come Testament, dove il collettivo porta sul palcoscenico i propri padri (tanti King Lear con stivali borchiati, ripresi da una telecamera miscroscopica che proietta i loro volti come dei ritratti in cornici di cartone), senza operare alcuna distinzione fra questi e gli attori; e come il nostro THE RITE OF SPRING as performed by She She Pop and their mothers, nel quale su quattro pannelli digitali posti al centro della scena giganteggiano ad altissima risoluzione le figure materne dei performer.

Madri virtuali, coraggiose, pronte a vegliare, presenti anche quando fisicamente assenti. Nessun riferimento ai ballets russes, né alla danza tellurica del Tanztheater di Wuppertal, né all’energia sensuale del corpo maschile nella famosa versione che fu curata da Maurice Béjart. Qui, in una forma “liquida”, più simile al making of che al prodotto finito, si assiste a una genuina rappresentazione della relazione tra madri e figli; il balletto messo in musica da Igor Stravinskij diventa fonte di ispirazione da cui partire e arrivare per far incontrare nel tema del “sacrificio” il senso più profondo della maternità e dell’essere donna (d’altra parte, è nota l’antica simbologia propiziatoria che unisce la Terra alla Madre).

Come accade, però, per buona parte degli spettacoli del reality trend, attraverso la semplice “discussione” sullo spettacolo da farsi, in quella chiara esplicitazione, messa in crisi, della sua impalcatura finzionale, lo spettacolo si fa, al punto tale che tra i commenti delle stesse madri spunta la necessità di cercare un altro titolo, perché «si è andati bene oltre» il Sacre di Stravinskij.

Di fronte a spettacoli come questi, la sensazione è di trovarsi catapultati in un esperimento da laboratorio, dove sotto la lente d’ingrandimento – in questo caso l’amplificazione dell’immagine avviene sopra gli schermi – possiamo osservare le reazioni di esseri umani messi nella condizione forzata di doversi esibire. In realtà sono i figli a porgerci i risultati di questo esperimento, ancora prima che noi ne possiamo trarre le nostre conclusioni: attraverso l’utilizzo di un dispositivo scenico frontale, parlando direttamente a noi spettatori, i performer ci spiegano – come se parlassero di un’indagine statistica (dunque lasciando nell’anonimato gli individui del campione di riferimento) – che «alcune madri» si sentono criticate in scena dalle loro figlie, che ad «alcune madri» dà fastidio essere osservate, ecc. … E anche in questo caso, scegliendo di crederci, noi spettatori proviamo a immedesimarci in quei volti muti cercando di capire quale sia il soggetto nascosto dietro la singola affermazione.

In qualche modo questa naturale curiosità dello spettatore avvicina la performance al format del reality show: proprio come in questo genere spettacolare, lo spettatore corre il rischio di ascoltare fatti banali, verso cui ha ragione di nutrire disinteresse, oppure, il racconto di un vissuto personale che si avvicina al proprio, oppure ancora, episodi che indirettamente descrivono una determinata realtà storica e sociale (ne è un esempio il momento in cui viene ricordato da una delle madri il suo percorso di emancipazione femminile e il “sacrificio” che ne è seguito: «Doveva essere mio marito l’artista, io solo l’insegnante di educazione artistica, e dovevo portare i soldi a casa»).

Eppure, in questo Rite of Spring il “rito” c’è: intimo, domestico, colorato di semplicità sin da quei primi minuti in cui vediamo sui pannelli una delle madri passare l’aspirapolvere sul palcoscenico, per abitudine o come mossa dal bisogno materno di prendersi cura dello spazio abitato per mestiere dal figlio. Poi, disposti lungo un’ellisse che comprende anche le donne “virtuali”, le due generazioni parlano a turno di felicità, dolore, sacrificio, delle loro battaglie culturali, sociali. Il ritmo è scandito dall’informalità di un gesto – passarsi fra le mani una sigaretta elettronica – e dalla reiterazione di una forma discorsiva («Vorrei parlare di…», oppure, «Pensavo che il tema fosse…»). La serialità, la figura dell’anafora, la frontalità del dispositivo scenico, la frammentarietà dei quadri sono tutte caratteristiche ricorrenti del reality trend che qui si amalgamano con l’esigenza di formalizzare le azioni in un rituale (suddiviso in quadri, intitolati come i diversi movimenti del balletto di Stravinskij).

Madri che sfilano, madri che danzano. Dita che picchiettano sui braccioli delle sedie a tempo di musica. Non importa se i corpi non sono perfetti o se i movimenti non corrispondono esattamente a quelli richiesti. Da questo punto di vista, sembra di scorgere la lezione della postmodern dance americana: una danza “democratica”, dove non c’è alcuna differenza tra alti e bassi, magri o grassi, belli o brutti, e il corpo che ci trasciniamo dietro nella vita quotidiana (tecnicamente impreciso, non addestrato) è libero di farsi corpo danzante, perché in un certo senso conta l’Io non l’idea, la storia individuale non quella universale: i gesti servono soltanto a svelarlo, nonostante in questo caso ci sia il tentativo – da parte dei figli – di dominarlo (dando ripetutamente istruzioni alle loro madri su come mantenere una postura o tenere lo sguardo). Il gesto, come il corpo, è reificato, si fa oggetto readymade della scrittura scenica.  Azioni come passare l’aspirapolvere o spazzolarsi i capelli non veicolano emozioni, sebbene in generale queste non manchino: come quando in sovraimpressione vediamo le foto delle quattro donne, giovani e belle, non ancora madri, e subito dopo i loro volti attuali, sovrapposti a quelli dei rispettivi figli.

E si spiega, alla fine di tutto, perché questo spettacolo fosse destinato a conservare dell’opera di Stravinskij soltanto il titolo e pochissimo altro. Queste donne hanno consacrato la loro vita ai mariti, immolato la loro libertà, trascurato la propria femminilità. Il progetto è destinato a “fallire” in partenza, ma è un fallimento beckettiano, positivo e premeditato: perché tra loro, le madri, non ci sono vergini che possano essere sacrificate.


Dettagli

  • Titolo originale: THE RITE OF SPRING as performed by She She Pop and their mothers
  • Regia: Cornelia e Sebastian Bark, Heike e Johanna Friburgo, Fanni Halmburger, Lisa Lucassen, Mieke Matzke, Irene e Ilia Papatheodorou, Heidi e Berit Stumpf, Nina Tecklenburg
  • Anno di Uscita: 2015
  • Costumi: Lea Søvsø
  • Produzione: ehrliche arbeit- freies Kulturbüro, She She Pop
  • Cast: Cornelia e Sebastian Bark, Heike e Johanna Friburgo, Fanni Halmburger, Lisa Lucassen, Mieke Matzke, Irene e Ilia Papatheodorou, Heidi e Berit Stumpf, Nina Tecklenburg


Altro

  • Concept: She She Pop
  • Video: Benjamin Krieg & She She Pop
  • Set: Sandra Fox & She She Pop
  • Disegno Luci e Direzione Tecnica: Sven Nichterlein
  • Suono: Florian Fischer
  • assistente e collaborazione drammaturgica: Veronika Steininger e Fanny Frohnmeyer
  • Organizzazione: Elke Weber
  • Collaborazione Musicale: Damian Rebgetz
  • Collaborazione Coreografica: Jill Emerson
  • Video Assistente: Anna Zett
  • Stagista: Mariana Senne dos Santos

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