Simone Giustinelli // Girotondo
Il regista ventitreenne Simone Giustinelli restituisce il senso ampio, ma non meno complesso, della fortunata opera di Arthur Schnitzler, in una regia che lavora molto sul linguaggio del corpo e sulla funzione dello spazio
Spero che per una volta mi sia concesso citare “Wikipedia”, dal momento che il breve testo di Arthur Schnitzler rientra tra le mie letture di molto tempo fa (e si tenga presente pure che avrebbe meritato qualche rilettura di approfondimento, perché con ogni probabilità contiene molti più significati di quanti a una prima scorsa se ne possano trovare); motivo per cui proprio non ho resistito ad aprire il link alla voce “Girotondo (Schnitzler)” dell’enciclopedia libera più popolare al mondo. Ebbene:
«Girotondo è un’amara critica all’impossibilità umana di amare, o meglio alle difficoltà che un amore puro implica nel realizzarsi. I contatti umani sono ridotti a mero comportamento sessuale, pura furia negli istinti e negli intenti. Ma l’atto sessuale che conclude ogni quadro è preceduto da un corteggiamento, una sorta di rito o danza dell’accoppiamento: i dialoghi e le interazioni tra i personaggi tendono a far risaltare l’aspetto grottesco di una comunicazione che tende solo a celarne i veri intenti».
Oltre a constatare la profonda verità e amarezza della prima affermazione, nonché la sua struggente attualità, non si può far a meno di essere attratti verso quella «sorta di rito o danza dell’accoppiamento», che proprio in virtù della sua ambiguità crea lo spazio per molteplici interpretazioni.
A questa visione “ampia”, o “amplificata”, dell’interpretazione sopra esposta si può dire abbia dato forma in maniera coerente il giovanissimo regista Simone Giustinelli con il suo Girotondo andato in scena alle Carrozzerie n.o.t, nel rione Trastevere.
A partire dall’introduzione, che significativamente chiude anche in modo circolare lo spettacolo, rappresentata dalle note parole di Peter Handke presenti nel film di Wim Wenders, Il cielo sopra Berlino («Quando il bambino era bambino…»): una scelta drammaturgica che se a un primo impatto farebbe storcere il naso ai “puristi”, a ben vedere non si è rivelata affatto fuori luogo. Dentro la poesia dell’autore austriaco, infatti, c’è il potere dell’immaginazione, lo sguardo infantile che dona nuova luce alle cose, la sua libertà di espressione. E, cosa non da poco quando si affronta il testo di Schnitzler, c’è l’apparente innocenza dell’approccio ai temi; quel far finta di non voler dire e poi dire a chiare lettere che aveva trionfato nell’estetica del film La Ronde di Max Ophüls (in quel caso anche per ovvie ragioni di censura, era il 1950); l’inclinazione verso un linguaggio simbolico e asciutto, fatto di metonimie, preterizioni, proprio come le forme e i generi poetici, i quali parlano per immagini sintetiche (“simbolo” deriva infatti da σύν βάλλειν, “mettere insieme”).
L’uomo al centro della poesia di Handke rilegge il tema universale dell’infanzia a posteriori, con occhio critico, così come Schnitzler nella sua pièce guarda all’eros con disincanto, possedendo la matura consapevolezza che nessun uomo o donna di qualsiasi tempo e luogo possa sfuggire alla sua mira.
Giustinelli nella sua regia ha restituito pienamente il senso ampio, ma non per questo meno complesso, dell’opera schnitzleriana: partendo da un sostanziale rispetto del testo, suddiviso in dieci scene (nel corso delle quali i dieci personaggi che compongono la pièce si incontrano a coppie, secondo lo schema “AB BC CD, ecc.”, in ordine crescente di estrazione sociale, dalla “prostituta” al “conte”), il regista ha lavorato moltissimo sull’utilizzo dello spazio – un’area rettangolare occupata lungo tutto il suo perimetro dal pubblico – e sul linguaggio del corpo dei dieci (straordinari) attori, le cui competenze e territori di appartenenza si direbbero molto diversi fra loro. Eppure, proprio questo sforzo, riuscito, di voler avvicinare, “mettere insieme”, corpi diversi in un unico cerchio – o forse sarebbe meglio dire, in un unico “girotondo” – comunica allo spettatore l’ineluttabilità di quanto accade ai personaggi dell’opera, sopraffatti da un destino beffardo che ha il potere di prendersi gioco di chiunque, senza distinzioni di classe.
La rinuncia a un punto di vista unico, a favore della prossimità quasi indiscreta dello spettatore, infine, va a sostenere il carattere voyeuristico del testo: fuori dal cerchio, infatti, il lettore, il potenziale spettatore, non è altro che il “prossimo”. E suo malgrado, sarà costretto a scoprire che il duplice vortice della passione e dell’abbandono, prima o poi, travolgerà anche lui.
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- Titolo originale: Girotondo