Clinica Mammut – Il retro dei giorni
Menzione speciale della giuria al Premio Tuttoteatro.com Dante Cappelletti 2012, lo spettacolo di Clinica Mammut riflette sul non-senso della vita cercando una via di fuga nella ricerca di una forma esteriore
In uno spazio bianco, algido e astratto, semplice e icastico, delimitato ai lati esterni da due file di buste di carta, anch’esse bianche, due figure assai diverse, intrattengono un intimo dialogo a metà tra l’universale e l’individuale, tra il filosofico e l’elucubrazione mentale. Sembra che quest’uomo e questa donna, che poi si rivelano fratello e sorella con un padre sul letto di morte, siano lì a condividere lo stesso spazio da un’eternità e che abbiano provveduto a rifornirsi di tutto il necessario in un tempo lontano, immortalato nell’attimo del rientro a casa, avendo poi preferito lasciare ogni cosa riposta nei sacchetti, messi in fila con precisione maniacale. Un quadrato nero sul fondo dell’apparato scenografico pare rendere omaggio al Quadrato nero su fondo bianco di Malevič; il quadrato è una finestra sul “retro”, il “retro dei giorni” che non torneranno indietro, su cui il buio della memoria sarà sempre più fitto, ma anche la possibilità di affacciarsi sul “davanti”, un futuro pieno d’incertezze e disillusioni, con i suoi sogni infranti e la morte, il male oscuro inevitabile.
E’ la crisi di mezza età che assale la donna, forse più pragmatica nei suoi discorsi rispetto all’uomo, anche se poi a conti fatti, nonostante il suo pragmatismo, non ha mai combinato nulla, e forse non lo farà mai. L’altro, invece, più giovane, dimostra di possedere ancora un briciolo di ottimismo, ma finisce come sua sorella per abbracciare una fede nichilista, dopo aver preso atto della sua incapacità di rispondere alle difficili domande di lei – come «Cosa ti tiene in vita quando la fine si approssima?» (da questo e da altri punti di vista, lo spettacolo strizza un po’ l’occhio a un altro importante duo contemporaneo, quello di Antonio Tagliarini e Daria Deflorian). Ancora una volta, infatti, il tema principale della scrittura – virtuosa, bisogna dirlo, a tratti un po’ “cervellotica” per quanto “cerebrale” – di Alessandra di Lernia è la coscienza del tempo: un tempo ultimo inconoscibile, irrecuperabile, e per questo angosciante. L’uomo che vive questo tempo, un’epoca «asettica» come viene definita, non può non essere un disfattista: «non ha senso niente, neanche il non-senso ormai». Proprio per questo la scrittura scenica si affastella di oggetti vivaci, coloratissimi, che non hanno senso ma che rivendicano una libertà creatrice e di inventiva: l’unica possibilità di espiazione per l’uomo, l’unica àncora di salvezza per uscire fuori e avere un contatto con quel mondo esterno che non garantisce nulla e non promette certezze, ma solo paure e sofferenza.
Dal punto di vista della scrittura e della resa scenica – encomiabile – l’operazione di Clinica Mammut si potrebbe avvicinare allo stile dell’autore contemporaneo Peter Handke, in cui l’arbitrio di significato della parola che abita il testo (una parola che viene vista quasi come una presenza “scomoda”, di impossibile interpretazione per il lettore) si accosta all’utilizzo degli oggetti in questa scena vuota come un foglio bianco, eppure densa di potenziale espressivo. Una scena che esplode sotto la superficie del non-senso, della forma esteriore. Perché sì, alla fine, bello il testo, bella la scena, bravi gli interpreti, ma si esce dal teatro con un pugno di mosche in mano: un po’ annoiati per l’eccessiva durata dello spettacolo e per l’ingerenza di qualche “intermezzo” che spezza quel legame tesissimo e sottile con lo spettatore, al quale, dopotutto, si voleva offrire la parte più profonda di se stessi, nel tentativo di stabilire una connessione empatica – che, però, non c’è sempre stata.
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- Titolo originale: Il retro dei giorni