Motus – Nella tempesta
Dal Living Theatre al presente, passando per Shakespeare, i Motus stimolano una riflessione sul potere del teatro e sulla sua possibilità di avviare le trasformazioni
“Non bisogna cercare di difendersi dalle tempeste, ma scatenarle!”. L’insegnamento della fondatrice del Living Theatre, Judith Malina, deve aver risuonato forte e chiaro tra i pensieri di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, da quando i Motus si sono interfacciati con la piccola grande donna che insieme a Julian Beck scrisse un pezzo di storia del teatro e che continua tuttora, all’alba degli ottantotto anni, a dare il suo fondamentale contributo al mondo teatrale. Lo stesso impegno dello storico gruppo newyorkese che fu diretto negli anni Sessanta alla fondazione di un teatro che sconfinasse nella vita, che invadesse le strade con il desiderio utopistico di cambiare il mondo e di renderlo migliore, si trova ridimensionato in forme, tempi ed energie nuove nel lavoro dei Motus su La tempesta di Shakespeare, progetto nato nel 2011 che ha debuttato in Canada, a Toronto, e che ha girato le più importanti vetrine italiane, sbarcando anche in Francia.
Grazie all’espediente del metateatro, lo spettacolo diventa una riflessione sul teatro come luogo del possibile, spazio in cui si modificano per un tempo limitato le relazioni tra gli individui, sulla base di una convenzione, di un codice condiviso da spettatori e attori. Nel teatro come nella vita, si è spinti all’azione da un’imposizione di potere, da un “passaggio” di poteri: dal regista agli attori, dagli attori agli spettatori, i quali a loro volta adoperano “the power of participation”. Ed è proprio la consapevolezza dell’esistenza di questa rete di poteri che spinse la ricerca e l’azione del Living Theatre verso l’esterno. Qui, però, rispetto all’esperienza storica del Living Theatre, e grazie agli strumenti del presente, il moto dal teatro alla vita è reciproco, non solo il teatro cerca di andare verso la vita, ma anche la realtà penetra il teatro; con un sottile paradosso, il reale arriva a imprimersi su quel finto fondale presso cui “l’attore non può appoggiarsi”: una parte del fondale bianco, infatti, è occupata dalla ripresa live di ciò che avviene appena fuori dallo spazio scenico, nel foyer. Dentro, intanto, gli attori maneggiano le coperte che il pubblico ha offerto loro per costruire la scena, e che saranno devolute a un’associazione impegnata nella promozione dei diritti delle comunità rom e sinte in Italia.
Un non-personaggio (Silvia Calderoni) ci introduce testualmente nel meccanismo teatrale, invitandoci a far finta che sia “invisibile”. Se nella realtà, infatti, anche chiudendo gli occhi, il mondo intorno continua a esistere, a teatro “devi credere in un mondo al di fuori della tua mente”; devi guardare oltre l’attore per incontrare il personaggio, perché esse est percipi, “essere è essere percepito” (“Se non mi guardi, non grido”, dice Silvia Calderoni) per usare una massima filosofica cara a Samuel Beckett, altro autore con cui i Motus hanno avuto modo di confrontarsi in passato. Silvia Calderoni è Ariel, l’incarnazione del desiderio di libertà che è dentro ciascun individuo: spirito libero condannato a non godere mai di un’autentica libertà, capace di immaginare le trasformazioni ma debole al richiamo della sua natura. La situazione insita nel testo shakespeariano, di Prospero, Duca di Milano allontanato da suo fratello Antonio che gli fa perdere possesso del ducato, e la conseguente fondazione, altrove, di un regno apparentemente più felice, su un’isola dove è lui stesso a imporsi come padrone sottomettendo alla sua volontà il “selvaggio” Calibano (personaggio perfettamente inquadrato dai Motus, traslato sul piano della contemporaneità nell’immigrato “X” che sbarca a Lampedusa), ha condotto la compagnia a iniziare una ricerca sul “master” che ci governa. Un lungo percorso cominciato sulla pagina scritta ma che si è evoluto secondo la forma del documentario fuori dalla pagina, trasferendosi nelle strade per incontrare gli Ariel e i Calibano del nostro presente.
Nella tempesta è un lavoro molto complesso, denso di spunti di riflessione, politici ma anche estetici, il connubio perfetto tra forma e contenuto, ricco ma non ridondante, capace di riportare alla luce lo spettacolo politico in senso ampio, di ricerca e di azione, d’impegno e serietà, senza rinunciare all’uso “tradizionale” – ma assolutamente non banale – del testo classico. Lo spettacolo, insomma, di cui sentivamo proprio la mancanza, che ci trascina verso il passato per guardare al futuro, alle “tempeste” future, che a teatro in qualsiasi momento possono fertilizzare il terreno delle antiche illusioni, di quel sogno, “sostanza” di cui siamo fatti. A piccole dosi, cambiare anche la realtà – chissà – forse, sarà ancora possibile.
Fotografia di Guido Mencari | www.gmencari.com
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- Titolo originale: Nella tempesta