Valter Malosti – Lo stupro di Lucrezia
La noia prende il sopravvento e lascia spazio nel frattempo a una sentita riflessione: a quanto il nudo sia una scelta registica piuttosto semplice da attuare, viste le possibilità dei nostri tempi.
Un quadrato rosso a terra, un frigo, un feretro coperto da un lenzuolo bianco, un armadio, un trono, uno scrittoio con sopra un teschio e un libro: un miscuglio stravagante tra passato e presente, questa scena, senza soluzione di continuità. Amleto? No, anche se il teschio, ovvimente, ci fa ricordare la più nota revenge tragedy del bardo inglese, come se trattandosi di Shakespeare chiunque fosse obbligato a piazzare un teschio su uno scrittoio.
E’ di un testo molto meno celebre che si tratta, un poemetto ricco d’ispirazione, e impregnato di una lingua manieristica, retorica, densa di immagini baroccheggianti: Lo stupro di Lucrezia, il mito della nobildonna romana violentata dal figlio del re Tarquinio il Superbo, attratto dalla sua purezza e virtù morali, come è narrato in origine da Tito Livio e poi dal poeta Ovidio. Il testo shakespeariano apre senza dubbio a una serie di riflessioni, su tutte la scelta difficile che Lucrezia si trova a fronteggiare: se continuare a vivere nel silenzio, con un disonore intollerabile, di cui solo lei sarebbe a conoscenza o preferire la morte, che decreterà, per bocca di Tarquinio, l’eterna vergogna, avendo egli minacciato la donna di diffondere la voce bugiarda di una relazione tra lei e il suo servo.
Troppi effetti sonori in questo spettacolo, in cui la parola shakespeariana anziché venire esaltata scorre come acqua fresca dalla bocca di una Lucrezia patetica, e dalla declamazione monotona. Decisamente poco chiara l’idea del regista Valter Malosti, di cui è apprezzabile solo il modo in cui ha disposto le luci e il richiamo ad alcuni interessanti spunti figurativi. Per quanto Malosti provi a sottolineare il brutale (finto) realismo della vicenda, in particolare nelle espressioni dei volti e nella violenza dell’azione, il tono generale assume un carattere patetico e poco credibile, e la noia prende il sopravvento, lasciando spazio nel frattempo a una sentita riflessione: a quanto il nudo sia una scelta registica piuttosto semplice da attuare, viste le possibilità dei nostri tempi. Una scelta che non tutti sono in grado di elevare in senso artistico.
E’ chiaro che, in questo caso, sia una scelta quasi doverosa (di che staremmo parlando, altrimenti, se non di stupro?), ma se poi pensiamo che lo stesso Shakespeare non poteva concedersi questa libertà mentre scriveva – eppure non ce ne ha mai fatto sentire il peso, grazie alla straordinaria potenza evocativa della parola – le cose si ridimensionano di parecchio. Rifletto su quanto mi è capitato di leggere di recente, tra le Lettere a un giovane danzatore di Maurice Béjart, a proposito della libertà per qualsiasi artista: “Una libertà che non si è conquistata non è una libertà. La permissività è l’ostacolo peggiore per un artista. Qualunque costrizione ci obbliga ad astuzie inaudite. Qualunque censura fa lavorare l’immaginazione, e la ribellione che comporta è fonte d’ispirazione”. Sembra, insomma, che non ci sia più nulla da dire e che la violenza possa rappresentarsi solo con la (simulata) violenza.
Ciascun testo di Shakespeare sottopone il regista contemporaneo a una sfida, quella del tentativo, astratto ma idealisticamente raggiungibile, di superare, di esaltare, la grandezza del suo autore. Quanti registi oggi sono in grado di ricavare dalle enormi libertà del presente qualcosa di altrettanto artisticamente pregnante? Per un testo come Lo stupro di Lucrezia, in cui si corre il rischio di vincere facile grazie alle libertà concesse oggi rispetto al passato, la posta in gioco diventa, credo, ancora più alta.
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- Titolo originale: Lo stupro di Lucrezia