Arti Performative

TeatroPersona – AURE

Renata Savo

Forte nella bellezza delle immagini, debole nell’impianto drammaturgico, AURE della compagnia TeatroPersona è l’ultimo capitolo della trilogia della Parola Assente.

Uno scrittoio antico, un libro e una sedia di spalle, a destra di uno spazio vuoto, compongono una scena “interessante” per la presenza, su ciascuno dei tre lati, di una porta bianca e antica in legno.

Si apre il sipario, silenzio. Una porta, quella a destra, si chiude. Poi, il rumore dei tacchi che attraversano il corridoio fra le quinte laterali. Vediamo lentamente aprirsi la porta di sinistra. E’ una donna vestita da domestica, in stile ottocentesco: i suoi passi sono decisi, ma il gesto è nervoso, ossessivo. Lo sguardo è perso nel vuoto. E’ con un fantasma che interagisce oppure è lei il fantasma? (Non può non venirmi in mente, data l’ambientazione e alcuni “colpi di scena” da film horror, il famoso film di Amenábar, The Others).

Altre due figure, un uomo e una donna, entrano portate una per volta strette tra le sue braccia: sono manichini che lei stessa mette in posa – come Jan Minarik in Cafe Müller della grande Pina Bausch di cui si risentono vagamente gli echi – e ai quali sembra dare vita nella sua mente attraverso la lettura silente del libro, seduta allo scrittoio. Le tre figure, nel corso dello spettacolo, si alternano e interagiscono sul palcoscenico in modi che è difficile tentare di spiegare. Ma d’altra parte esse sono “aure”, e sfuggono al meccanismo della narrazione, della rivelazione di un senso. Alessandro Serra, infatti, ha puntato all’espressione della bellezza delle immagini corporee più che alla ricerca di una logica narrativa. Chi si aspetta di trovare un legame fondato sull’aderenza al soggetto dell’eptalogia di Proust, Alla ricerca del tempo perduto, cui AURE – il terzo capitolo della trilogia della Parola Assente, preceduto da Beckett Box e, prima ancora, da Il trattato dei manichini – è ispirato, rimarrà deluso. Serra sembra aver messo in scena lo stile fluido della scrittura di Proust, dove le immagini scorrono seguendo il flusso dolce della memoria.

Molte delle scene sono davvero suggestive – quella, ad esempio, in cui si esprime l’idea di animare con il movimento di mani un filo di luce che filtra da un buco della serratura – ma altre piuttosto snervanti, come la scena surreale accompagnata dal rumore registrato, prolungato dello scricchiolio di una porta. Altre ancora concretizzano sulla scena un nuovo modo efficace di creare suspense a teatro, che si serve dell’utilizzo sapiente del buio e della dialettica tra il suono e l’assenza della fonte sonora.  Ottimo l’uso delle luci, che a tratti ricrea quell’atmosfera drammatica, “parlante”, che manca alla successione – un po’ troppo meccanica – delle immagini. Il plauso va anche alla scelta delle musiche, e al modo in cui queste dialogano con il corpo e l’espressività dei performer.

Il giudizio complessivo è un “nì”, dovuto al peccato di un eccesso di maniera e alla debolezza drammaturgica, difetti che vanno a deludere quelle attese nutrite dall’energia magnifica emanata dal lavoro della compagnia sull’immagine.


Dettagli

  • Titolo originale: AURE

Una selezione delle notizie, delle recensioni, degli eventi da scenecontemporanee, direttamente sulla tua email. Iscriviti alla newsletter.

Autorizzo il trattamento dei dati personali Iscriviti