foscarini:nardin:dagostin – Spic & Span
Chi sono quei tre personaggi, persone? Macchine? O devono essere visti per quello che appaiono, corpi in movimento?
Tre sagome di spalle. Tre macchie di colori sgargianti su quella grande tela bianca che è il palco. Attendono impassibili che ognuno prenda il proprio posto in platea per poi cominciare a dipingere con la loro performance spettacolare un percorso criptico, per quanto multi sfaccettato, che disegna le aspettative di un epilogo lontano dall’immaginazione.
Chi sono quei tre personaggi, persone? Macchine? O devono essere visti per quello che appaiono, corpi in movimento? Ognuno rifletta per sé, perché cercare di dare un’unica interpretazione sarebbe un vano tentativo di ingabbiare qualcosa che è fuori dagli schemi.
Indossano gli occhiali da sole, non lasciano al pubblico la possibilità di poter vivere del loro sguardo, di entrare nella loro testa, di viverli come persone. Fino alla fine mantengono quello schermo davanti ai loro occhi che rende quasi impossibile leggere espressioni o cogliere ammiccamenti. L’unica cosa che resta da vedere è il loro corpo che si muove, che sobbalza, che comincia lentamente a contorcersi e a perdere quell’elemento di modulare gestualità che aveva contraddistinto i primi minuti dello spettacolo.
Non si fermano, non danno segni di cedimento. Ripetono pose e gesti in modo meccanico, e privo di intenzionalità. Così gettano a terra una miriade di palloncini che vanno a macchiare, come ulteriori chiazze di colore, il pavimento di quella scena essenziale. Palloncini che gonfiano e sgonfiano, riempiono e svuotano: pieno-vuoto come metafora dell’apparenza dell’essere.
Pieni di se stessi tanto da essere omologati e influenzati da una serie di pose che circoscrivono la propria personalità, vuota quest’ultima, appunto, perché non vera, mero specchio di qualcosa che è intangibile: specchio del tempo, specchio di un’epoca.
Sono ripetizioni che annullano il significato, annullano la persona che non diventa altro che manichino senza scopo. Eppure, dopotutto, il rapido incalzare dei movimenti dei tre ragazzi sembra voler dire che loro uno scopo ce l’hanno: sono lì per dimostrare che da quel cliché di pose se ne può uscire. Il prezzo è il disfacimento.
Bevono, sorseggiando smaniosi, da una bottiglia di Spic & Span, il famoso detersivo. Riempiono il loro corpo, diventato ormai contenitore vuoto, scolando letteralmente il flacone che ognuno ha tra le mani. Che questo gesto indichi la loro trasformazione da corpo vuoto a bottiglia antropomorfa? O che l’unica cosa che resta da fare dopo aver compreso la propria inettitudine è “pulirsi” dal di dentro per poter aspirare a ritornare ad essere?
Li vediamo per un’ultima volta muoversi senza controllo, quasi ubriachi di Spic & Span, come se fossimo tutti spettatori di una catarsi in progress. Il buio si alterna alla luce, una sorta di black-out annunciato, lo spegnersi di questi corpi-macchina che si fanno avanti nella penombra scenica ormai esausti. Tolgono gli occhiali, li vediamo ora nella loro totalità.
Adesso “sono”, adesso l’applauso è per Foscarini, Nardin e D’Agostin e per il loro talento.