Shakespeare400. Essere o non essere: il terzo monologo di Amleto
Un monologo più famoso del suo stesso autore William Shakespeare, visto e sentito al cinema in tre versioni dell’Amleto firmate da Laurence Olivier, Franzo Zeffirelli e Kenneth Branagh.
In occasione dei 400 anni dalla morte di William Shakespeare il mondo della cultura e dello spettacolo internazionale ha organizzato celebrazioni e iniziative di ogni tipo, in un omaggio collettivo al più grande scrittore inglese di tutti i tempi. Nessun altro autore teatrale nella storia è stato fonte di ispirazione per il cinema quanto il maestro di Stratford-upon-Avon, e ognuna delle sue 37 opere sia comiche che drammatiche è stata adattata innumerevoli volte per il grande schermo.
Tra le più famose, nonché tra quelle che contano il maggior numero di trasposizioni cinematografiche, la tragedia Amleto, scritta nei primi anni del 1600 e andata in scena per la prima volta probabilmente nel 1602. La storia e la figura di Amleto hanno incantato il cinema fin dalle sue origini, e la prima versione filmica di questa opera è addirittura quella muta di Clément Maurice datata 1900. Da allora, registi di ogni paese del mondo l’hanno fatto propria realizzando adattamenti più o meno vicini al testo originale e, nonostante alcuni insuccessi, i tentativi di portarla al cinema non sembrano volersi fermare.
Essere o non essere è il terzo e più famoso monologo di Amleto, e nell’opera teatrale arriva all’inizio del terzo atto, quando il principe di Danimarca sta per dare inizio al suo piano per vendicare il defunto padre contro lo zio usurpatore del trono Claudio. Rispetto agli altri soliloqui, Essere o non essere caratterizza meglio di tutti l’infelice protagonista, cogliendone dubbi, paure e desideri: nelle parole che questi pronuncia è raccolto il senso di tutta la tragedia. In quanto perfetto riassunto del personaggio principale, questo monologo è divenuto punto chiave di tutti gli Amleto cinematografici; con un testo che raramente è stato manipolato, la sola interpretazione di questa scena ha dato un tratto distintivo a ciascun lungometraggio.
L’Amleto di e con Laurence Olivier (1948) è stato uno dei migliori mai realizzati, premiato con quattro Oscar tra cui miglior film e miglior attore protagonista: a tutt’oggi l’adattamento del Barone Olivier resta un esempio degno di imitazione. Il suo Amleto è come lo si immagina leggendo il testo shakespeariano, un giovane principe dall’umore cupo e dall’atteggiamento poco volitivo, costretto suo malgrado ad agire lasciando da parte le sue fosche meditazioni. Dalla cima del castello di Elsinore Amleto osserva il mare in tempesta e il suo monologo è per metà recitato e per metà interiore: una scelta efficacissima che aumenta l’autenticità della situazione e del personaggio. Amleto tiene il piccolo pugnale a mezz’aria ora rivolgendolo verso se stesso, ora allontanandolo, fino alla conclusione che lo porta a desistere dal commettere il suicidio. Magistrale.
Avventuroso, epico, passionale è l’Amleto del 1990 di Franco Zeffirelli, con Mel Gibson nei panni del principe danese e Glenn Close nel ruolo di Gertrude. È stato detto che l’accento posto sul rapporto tra madre e figlio ha donato a questa versione una carica sensuale che, unita alla forte componente di azione (indubbiamente congeniale a un attore come Gibson), ha costituito un interessante elemento di innovazione. La scena del monologo si svolge nelle tombe reali del castello di Elsinore, dove Amleto discende per dar voce ai suoi pensieri e quasi conversare sul sepolcro del padre. Il suo Essere o non essere è acceso, modulato, ragionato, e segue il filo dei suoi pensieri variando in toni ed intensità; l’interpretazione di Mel Gibson convince ed è coerente col carattere determinato del suo Amleto, protagonista di un’epopea cavalleresca in perfetto stile Zeffirelli.
L’ultimo Amleto da menzionare è sicuramente quello diretto e interpretato da Kenneth Branagh (1996). La sua è una trasposizione del testo integrale della tragedia, per un film-esperimento della durata di 240 minuti (150 nella versione ridotta). Ambientato in una lussuosa corte ottocentesca, l’Amleto di Sir Branagh ha il suo punto di forza nell’eleganza della messa in scena e nel carisma del protagonista che tanto somiglia ad un eroe romantico per violenza del sentire e psicologia. Amleto, capelli biondo platino e formale abito nero, pronuncia l’Essere o non essere allo specchio, perfetta metafora del dialogo con se stesso. Le parole del principe risuonano solenni nell’immenso salone del palazzo reale, mentre questi si avvicina allo specchio sfoderando d’istinto il pugnale, ma abbandonando infine il proposito di morte per il sopraggiungere di Ofelia (una giovane Kate Winslet). Forse l’ultimo adattamento in ordine cronologico degno di nota.
Alcune versioni filmiche di questa tragedia hanno provato a reinventare la materia narrativa e a rivisitare il monologo del terzo atto: in Hamlet 2000 di Michael Almereyda (2000), Ethan Hawke è un Amleto contemporaneo che recita il suo monologo nella sezione “Azione” di un negozio Blockbuster; nel finnico Amleto si mette in affari (1987) il monologo è addirittura assente. Si storcerà il naso, si griderà allo scempio, ma se l’immensa opera di Shakespeare è vissuta fino ai giorni nostri conservando il suo splendore inalterato è anche grazie al costante lavoro di appropriazione (più o meno discutibile nelle varie declinazioni) di una materia artistica che generazioni e generazioni di autori hanno fatto e continueranno a fare. Lunga vita al Bardo!