Cinema

Da “Ecco fatto” a “Padri e Figlie”: nevrosi e riscatti degli eterni Peter Pan di Gabriele Muccino

Valentina Esposito

In occasione dell’incontro con Gabriele Muccino per l’iniziativa Maestri alla Reggia, ripercorriamo la carriera del regista romano.

 

Su Gabriele Muccino si è scritto e detto tanto: il regista romano che ha iniziato la sua attività cinematografica, e parallelamente anche televisiva, realizzando una serie di spot per noti marchi di ogni genere, si è guadagnato un posto “speciale” nel cuore dei critici. Se il pubblico in fondo risponde con curiosità e interesse al suo cinema nel quale trova consolazione dalle amarezze della realtà, amplificate alla massima tensione, il critico non può evitare di interrogarsi a ogni film su quale sia il filo conduttore che ha portato per l’ennesima volta il regista a sciorinare drammi e personaggi manchevoli di forma e contenuto adeguati che permetta di caratterizzarli ed esprimerli.

In occasione dell’incontro alla Reggia di Caserta che lo vedrà protagonista il 7 Aprile, cerchiamo di ripercorrere e comprendere l’impianto debole del cinema di Gabriele Muccino, che tra un film e l’altro ha sempre cercato di tenersi ben saldo agli argomenti che più gli sono cari, nel tentativo di costruire una continuità. In Come te nessuno mai (1999) Muccino attraverso le sembianze del fratello, che per l’occasione ne diventa riflesso, vuole raccontare i drammi e le incertezze della generazione borghese post-sessantotto, di quei figli cresciuti nel benessere che come i genitori ancor prima tentavano di cambiare il mondo. È la generazione, in questo film nella sua fase adolescenziale, che diventerà poi protagonista dei suoi lavori successivi: è quella di Gabriele Muccino, quella dei trentenni che non vorranno crescere, che guarderanno sempre al passato per consolarsi, incapaci di costruire storie d’amore perché votati all’instabilità emotiva.

Con L’ultimo bacio (2000) Stefano Accorsi si fa portabandiera di quest’uomo eterno Peter Pan, che pur di non crescere si getta a capofitto in una storia d’amore senza futuro con una ragazza di diciotto anni, insieme ai suoi coetanei che ne vivono di altrettanto insoddisfacenti e  trovano nel tradimento la soluzione ai loro problemi. Ne L’ ultimo bacio che poi avrà un seguito, anche gratuito, in Baciami ancora (2010), si svelano tutte le pecche del cinema di Muccino: personaggi ridotti a stereotipi, privi di anima, banalizzazione e semplificazione delle vicende sentimentali e familiari, dialoghi funzionali alla strutturazione di un crescendo che si esprime in grida e isterismi. Si distrugge così ogni filo comunicativo, non solo tra i personaggi e i contesti, ma anche con lo spettatore, che si arrende all’incomprensione della vita secondo Muccino. Eppure gli americani ne hanno voluto fare un remake, The Last Kiss di Tony Goldwyn.

È un cinema allora che presenta questioni ma non discute né argomenta, non riflette ma che anzi si fa simbolo di uno stato esistenziale a cui non si può porre rimedio: bisogna prendersi il mediocre, perché per come si imposta la nostra società non possiamo chiedere altro. Cercare una stabilità interiore e di riflesso esteriore non è possibile, allora non resta che rassegnarsi. Rassegnazione che anima tutti i “martiri” di Ricordati di me (2003), dove si mescolano le aspirazioni infrante dei giovani con quelle degli adulti, che ancora una volta additano la causa dei loro problemi alle relazioni amorose. Il sesso allora diventa una cura, sempre dietro l’angolo magari per allungare il brodo o riempire buchi di sceneggiatura, da consumare preferibilmente in maniera rapida e disinteressata: e su questo tutti d’accordo, adulti e giovani.

Con La ricerca della felicità (2006), forse il più riuscito dei film di Gabriele Muccino, perfettamente intessuto sulla storia di Chris Gardner affidata al talento di Will Smith, il regista romano rompe con la sua tradizione di amori infranti, lascia le pareti claustrofobiche della borghesia italiana e si lancia in un’avventura tutta americana. Pur narrando un dramma, questa volta pulito e composto da far paura data la febbre nevrotica che da sempre assiste Muccino, The Pursuit of Happyness manca di personalità, appare come un prodotto ben confezionato, perfettamente aderente alla visione del cinema americano di quel genere che porta da sempre in alto la visione vincente del sogno americano. Replica con Sette Anime (2008): ancora una volta Will Smith, brillante ingegnere che cerca la redenzione per aver tolto la vita a sette persone per una sua distrazione che ha causato un tragico incidente stradale. Anche qui però manca un tocco personale, difficile allora chiedersi se il regista abbia fatto un passo avanti o uno indietro.

Appare chiaro però che a muovere i personaggi di Gabriele Muccino è sempre la ricerca dell’amore, visto sempre come un punto d’arrivo e mai d’inizio: gli riesce in fondo bene raccontare quello tra un padre e un figlio ne La ricerca della felicità, ma nel corso della sua cinematografia sempre più difficile gli riesce raccontare quello tra uomo e donna. Avventura americana, ma ancora una volta così ben incasellata nei rigidi schemi dell’intrattenimento senza sofferenza, Quello che so sull’amore (2013) fa gola perché per un regista avere a disposizione un cast di stelle come Gerard Butler, Catherine Zeta-Jones, Uma Thurman e Jessica Biel è il massimo, ed è forse proprio per loro che vale la pena arrivare alla fine di un film che racconta di riconciliazione, ma senza aggiungere nulla di originale alle storie di questo stampo già raccontate a cinema. Stesso può dirsi per Padri e Figlie (2015), dove forse Muccino scortato da un sempre magistrale Russell Crowe cerca di fare pace con il pubblico tornando alle corde del melò e riprendendosi un po’ della sua dimensione.

 



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