Intervista a Giorgia Lolli, in prima assoluta al Romaeuropa Festival con “Eat me”
Domenica 20 ottobre nell’ambito dei Dancing Days del Romaeuropa Festival parte dalla capitale la tournée della coreografa e danzatrice emiliana Giorgia Lolli (classe 1996), in scena in prima assoluta (ore 17.00 al Mattatoio) con il suo nuovo lavoro Eat me, uno spettacolo sull’azione del guardare e dell’essere guardato, ovvero “mangiato con gli occhi”. In scena Sophie Claire Annen e Giorgia Lolli. Il progetto sonoro è di Sebastian Kurtén. I costumi di Suvi Kajas, il disegno luci Elena Vastano.
Dopo il debutto, Eat me sarà in scena mercoledì 30 ottobre alle ore 20 a Cango – Cantieri Goldonetta di Firenze nell’ambito della rassegna La Democrazia del Corpo, il 6 e 7 novembre alle ore 19.30 ad Atelier Sì a Bologna per il Gender Bender International Festival e domenica 10 novembre alle ore 19 al Teatro ai Colli di Padova in occasione del Festival Internazionale La Sfera Danza.
Negli anni l’attività di Giorgia Lolli è riuscita a esprimersi attraverso diverse piattaforme, tra cui Anghiari Dance Hub, Vetrina della Giovane Danza d’Autore e le azioni di residenza Boarding Pass a Kaunas, Cracovia, Buenos Aires e Tunisi. Dal 2022 è insegnante Dance Well – Movement research for Parkinson’s, all’interno del progetto europeo coordinato da Operaestate Festival di Bassano del Grappa. Nel 2023 è stata selezionata per Nuovo Forno del Pane, progetto di residenza curato dal MAMbo – Museo di Arte Moderna di Bologna. Qui ha iniziato la ricerca per Eat me, con cui, insieme a Sophie Claire Annen e Sebastian Kurtén, ha vinto DNAppunti Coreografici 2023 promosso da Romaeuropa Festival, Triennale Milano Teatro, Gender Bender International Festival, Operaestate Festival Veneto, L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, Centro Nazionale di Produzione della Danza Virgilio Sieni. Eat me è una produzione Anghiari Dance Hub, Nexus Factory e vede il sostegno di Padova Festival Internazionale La Sfera Danza, Fondazione Svizzera degli Artisti Interpreti (SIS).
Per saperne di più su questo lavoro ne abbiamo parliamo con lei, la coreografa Giorgia Lolli.
Eat me, in scena in prima nazionale, è per te “una riflessione sul fare del corpo osservato”. Che cosa significa?
Che mi interessava che uno dei segni del lavoro fosse un corpo consapevole di essere osservato, e in qualche modo di come essere osservate significa l’azione. La scena è ovviamente lo spazio d’eccellenza per sentirsi osservate, ne sono consapevole, ma talvolta la prospettiva dello spettatore può passare in secondo piano rispetto alla dimensione di quello che sta avvenendo sul palco o dell’esperienza letta dalla prospettiva del performer.
Già dal primo inizio del lavoro, in aprile 2023, volevo che questa prospettiva fosse un segno chiaro di Eat me. Ero in residenza per Nuovo Forno del Pane, progetto del MAMbo Museo di Arte Moderna di Bologna, negli spazi delle Torri dell’Acqua di Budrio, dove ho passato diversi mesi da sola. Il lavoro è iniziato filmandomi, usando la camera come strumento per osservarmi da fuori, per iniziare ad indagare questa dimensione di “corpo osservato”. Questa ricerca ha subito poi coinvolto Sophie Claire Annen, già interprete in Eufemia, il mio primo lavoro, e compagna di studi.
Più avanti nel processo, continuato dopo la vittoria di DNAppunti Coreografici un anno fa, la riflessione si è mossa più chiaramente verso pensare la scatola nera, che è un po’ il buco di una serratura. L’andare a teatro come spazio di voyeurismo mi interessa molto, in Eat me è pensato come punto di partenza per coreografare un punto di vista.
In ultimo la parola “riflessione” non è casuale: come riflettere, ragionare, sì, ma anche come gli specchi. Con questo lavoro ho pensato anche all’azione di esporre, mettere in luce e quindi mettere lo spettatore davanti a qualcosa che fuori dalla scena esiste già, ed è sempre esistito. In Eat me, è in scena, si muove, restituisce lo sguardo – abbiamo cercato di mettere in scena un corpo che sa di essere osservato, e che decide quando sovvertire questo ordine per diventare osservatore.
La prima cosa che mi viene in mente, leggendo il titolo è – probabilmente, non ha nulla a che vedere con il tuo lavoro (o forse sì, chi lo sa) – il romanzo di Lewis Carroll, Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie. Ci hai pensato?
Ah, certo, il biscotto di Alice! In realtà non ci avevo mai pensato! Se posso dire, però, qualcosa della storia ce lo trovo anche io. Carroll ha creato un mondo affascinante ma dettato da leggi enigmatiche. Un equilibrio tra senso e nonsenso che ti lascia spazio per la lettura che desideri darle. Un luogo in cui succedono le cose, uno spazio di metamorfosi costante. La tua suggestione potrebbe anche essere legata ai costumi, disegnati e realizzati dall’artista finlandese Suvi Kajas, in cui rivedo una dimensione onirica forte (assomigliano un po’ allo Stregatto, vero). Il suo input durante le prime residenze ha aperto completamente il lavoro, che è esploso in moltissime direzioni: il costume è diventato una seconda pelle, che ci dà la possibilità di diventare tanto altro che danzatrici. Sono emerse identità del mondo umano e non umano. In questo rivedo lo spirito del libro, sì.
In generale, quali sono, se ci sono, dei riferimenti letterari, delle fonti di ispirazione, in questa performance?
La prima ispirazione è stato il modo di dire “mangiare con gli occhi”. L’ho sempre trovata molto ricca come piccola sovversione, in linguaggio, dell’ordine del sentire. Mi racconta di un modo di vivere appieno, costruendo relazioni erotiche con quello che ci circonda (erotiche nel senso di legate al sensibile – siamo partite da questo). E nonostante quella del mangiare con gli occhi sia un’immagine che può apparire molto poetica, essa mette in atto un paradosso: ha anche per me un lato più perturbante, legato al consumo dell’immagine. Stare in questo spazio di ambiguità che il linguaggio ci offre, per me, è sempre stato generativo: le azioni che vedrete in scena le sento profondamente legate a queste tensioni, negli spigoli tra chi guarda e chi agisce.
Abbiamo lavorato più con immagini e immaginari che con riferimenti letterari. Ma ricordo che a un certo punto mi ha trovata anche una poesia di Silvia Bre che abbiamo conservato: “ecco lo spazio da assecondare / e da distrarre con luoghi irresistibili / e noi, le sirene”.
Come mai siete in due in scena? Che tipo di dialogo si instaura con Sophie Claire Annen?
Siamo diventate due, all’inizio ero sola. Questo progetto, però, non è mai stato un solo, anzi. Ero sola in una prima fase di ricerca, in cui accoglievo pezzi di dialoghi con colleghe e colleghi, e scrivevo piccole indicazioni poetiche che ho poi condiviso con Sophie. Dopo una prima condivisione dei primissimi materiali del lavoro ho ricevuto una restituzione scritta che è rimasta come bussola fino ad oggi: “movimenti quotidiani: una gamba si accavalla, un piede si sposta, accarezza, forse gratta la gamba, cambia il peso. Come a letto, come al mare. Riposo – o insonnia forse. Nulla. Un quasi nulla raddoppiato – in sincrono, sfasato, a canone – come a dire che sai benissimo che nulla non è: è qualcosa e questo qualcosa sta (quasi) tutto nell’implicito”.
L’archivio fisico si è infatti spostato molto velocemente verso un movimento minuto, pressoché invisibile: un corpo sdraiato, che riposa, che si aggiusta, che trova uno spazio, che cerca un agio nello stare: diventare due ci ha permesso di sperimentare in questa ricerca una mancanza di casualità. Da questo è poi arrivato l’unisono, come a dirci: se lo stiamo facendo in due, forse proprio niente non è più. La drammaturgia del lavoro si appoggia molto sul doppio, e sulla costante interconnessione ritmica e di risonanze tra i due corpi. Nella danza, ma anche nella vita, cerchiamo come starci vicine e andare avanti insieme.
Che ruolo gioca il sound design?
Fondamentale! All’inizio siamo partite da un primo approccio pratico: molto spesso siamo in posizioni in cui è semplice perdere i riferimenti sia spaziali (siamo sdraiate, a pancia in giù, spesso senza vederci), che temporali. La partitura musicale è diventata presto un mezzo per sentire il tempo passare. Un metronomo, certo, ma anche un cuore per la performance.
Da un punto di vista concettuale, la collaborazione con il sound designer Sebastian Kurtén (anche lui di Helsinki, dove vivo), si è mossa su un binario molto diverso da quello del costume. Il corpo sonoro è stato definito come un terzo danzatore con cui mettersi in relazione: abbiamo deciso che la sua presenza dovesse essere un supporto ritmico a quel che prende vita in scena.
Quanto è stata stimolante per la tua formazione la tua città, Reggio Emilia, considerata una sorta di capitale della danza in Italia?
Ho iniziato danza da piccolissima – forse come tante – a studiare danza a Reggio Emilia. La mia migliore amica dell’asilo, Carolina, era la figlia del maître di Aterballetto e mi ha detto che avevo un bel collo del piede… così ho iniziato ad andare a lezione di danza insieme a lei, per gioco. Sono cresciuta in un ambiente in cui ho potuto vedere da vicino il lavoro di Aterballetto con i più grandi coreografi, certamente, ma anche di tante altre compagnie internazionali che passavano ogni anno in tour. Non è per rendere la storia romantica, ma so che è stato un regalo essere esposta a così tanto da così giovane. Ho anche viaggiato tanto, per formazione e per lavoro, ma per me Reggio Emilia sarà sempre un posto a cui fare ritorno e in cui respirare danza.
[Immagine di copertina: foto di Hanna Kushnirenko]