Arti Performative

VicoQuartoMazzini // La Ferocia

Alessandro Fiorenza

Quando scegli di portare in scena l’adattamento di un romanzo, e scegli di farlo senza discostarti dal testo originario, senza riscriverne le scene o scriverne di nuove, il confronto con il materiale originale è inevitabile. Pressocché impossibile, insomma, valutarlo come uno spettacolo a sé. E così avviene con La Ferocia di Nicola Lagioia, libro vincitore del Premio Strega 2015, e il suo adattamento teatrale firmato da Linda Dalisi, Premio Hystrio alla Drammaturgia 2024, per la regia della Compagnia VicoQuartoMazzini (Premio Hystrio 2021 come miglior compagnia emergente), in scena al Teatro Argentina di Roma nell’ambito del Romaeuropa Festival fino a stasera, 4 ottobre (una produzione Scarti Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione, Elsinor Centro di Produzione Teatrale, LAC Lugano Arte e Cultura, Romaeuropa Festival, Tric Teatri di Bari, Teatro Nazionale Genova). Il confronto non attiene soltanto, ovviamente, ai contenuti del libro, ma anche alle interconnessioni possibili tra i due media, il romanzo e il teatro, e alle loro rispettive modalità di fruizione.

La scena si apre su un uomo, in piedi nella penombra, che aspetta un’importante telefonata. Lo vediamo da dietro una portafinestra che dà su quello che immaginiamo essere il giardino della sua villa, con accanto la moglie e uno dei suoi figli. Spalle curve, voce arrochita dal tabagismo e barba imbiancata dagli anni, lo sentiamo rivolgersi a sua figlia Clara, che non c’è. “Aspetto di sapere se sei viva o morta”, dice Vittorio Salvemini, costruttore barese e patriarca di una famiglia influente, parte di quella borghesia arrogante e spregiudicata che si è arricchita rapidamente grazie alla disinvoltura con cui coltiva le proprie relazioni sociali e politiche.

Foto di Francesco Capitani

Romanzo “corale”, La Ferocia è scritto in terza persona, con il narratore che di volta in volta assume il punto di vista dei diversi personaggi attraverso i quali viene raccontata la storia. Dalisi, nel lavoro di adattamento, sceglie di riprendere quasi alla lettera il testo di Lagioia mutando però la persona, che passa dalla terza alla seconda, di modo che i pensieri, le emozioni e anche le notizie sul passato dei personaggi descritti dall’autore nel romanzo diventino parole che i personaggi si rivolgono tra loro, e che soprattutto sono indirizzate – in monologhi che rappresentano la struttura portante dello spettacolo – all’assente Clara. “Nel pensare la regia dello spettacolo abbiamo scelto di mettere al centro, nella sua assordante assenza, il corpo di Clara, chiuso nello sguardo di tutti quelli che hanno creduto di poterlo possedere”, scrivono nelle note di regia che accompagnano il lavoro Michele Altamura e Gabriele Paolocà, registi e anche interpreti (eccezionale il cast, oltre ad Altamura e Paolocà ci sono Leonardo Capuano, Enrico Casale, Gaetano Colella, Francesca Mazza, Marco Morellini, Andrea Volpetti). L’effetto, tuttavia, è straniante, con le conversazioni tra i personaggi che risultano appesantite da linee di dialogo contenenti informazioni che i personaggi dovrebbero già conoscere (che senso ha che Vittorio, in attesa di sapere se la figlia è morta o no, racconti la sua storia imprenditoriale alla moglie con cui è sposato da trent’anni?), o in monologhi nei quali, rivolgendosi alla ragazza, i personaggi scandiscono descrizioni e racconti di episodi avvenuti in precedenza secondo una modalità che può funzionare su carta, ma che sul palco di un teatro comprime racconto e interpretazione, influendo anche sulle comunque valide performance attoriali. L’adattamento teatrale di un romanzo comporta certamente la necessità di tagliarne alcune parti, ma la scelta di non riscriverne le parti principali, e di lasciare il racconto dei fatti ai personaggi che si alternano in monologhi sul palco così come fanno nel libro avvicendandosi nel punto di vista del narratore, realizza una messa in scena che non riesce bene a liberarsi della forma del romanzo, finendo per confinarsi in una sorta di lettura pubblica del testo.

Foto di Daniele Spanò

Una tale aderenza al romanzo comunica la volontà di restituirne sul palco e dal palco non solo la storia, ma anche le atmosfere, le ambientazioni, la complessità dei personaggi e delle relazioni che li legano e, soprattutto, il significato dell’opera letteraria. Tuttavia, l’allestimento fatica a raggiungere il suo obiettivo e la vera ferocia del romanzo, la violenza e il dolore delle relazioni familiari, la spregiudicatezza e l’amoralità di quelle sociali, così potentemente raccontate da Nicola Lagioia nella sua opera, emergono solo a tratti, finendo sommerse da una narrazione che nella sua struttura non riesce a restituire il ritmo e la densità emotiva che invece riempiono le pagine del libro.

[Immagine di copertina: ph di Francesco Capitani]



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