Arti Performative

Gianni De Feo // Daimon – L’ultimo canto di John Keats

Renata Savo

Quasi dieci anni fa, uno dei collettivi teatrali italiani più importanti del momento (premiato agli Ubu per il Miglior Spettacolo 2022), i Sotterraneo (che allora si chiamavano ancora Teatro Sotterraneo) firmavano il Daimon Project, una divertente serie di spettacoli in cui esploravano, percorrendo a ritroso e ironicamente le vite di personaggi storici, un tema poco battuto in teatro (indimenticabile resta, ancora, Vocazione di Danio Manfredini), ma molto discusso in ambito filosofico: la vocazione, espressa dal concetto di Daimon. Se il progetto del collettivo fiorentino andava alla scoperta, così, del momento in cui la “vocazione” ha fatto capolino nelle esistenze di personaggi illustri nella storia dell’umanità, ritroviamo in qualche modo declinato sulla vita di un filosofo di scuola junghiana lo stesso tema nello spettacolo andato in scena al Teatro Lo Spazio a Roma dal 2 al 5 febbraio, Daimon – L’ultimo canto di John Keats, scritto da Paolo Vanacore e interpretato e diretto da Gianni De Feo.

Gianni De Feo interpreta il protagonista James Hillman (1926-2011), psicanalista e filosofo originario di Atlantic City. Dapprima vediamo l’uomo seduto a una sedia, inquadrato di spalle e con lo sguardo rivolto verso il paesaggio in videoproiezione di un golfo,  romantico nel senso più letterario del termine. De Feo/Hillman ritorna con il pensiero alla sua giovinezza, e in particolare a un’amicizia nata tra i corridoi di un albergo di proprietà della sua famiglia. Un incontro che per lui fu illuminante, quello con un ragazzo brillante e spigliato di nome John che occupava con i suoi famigliari la stanza 131. Un numero che con la sensibilità dell’età più matura, sul palcoscenico e rivolgendosi direttamente al pubblico come nel racconto di una intima confessione, Hillman collega agli anni che lo separano dalla nascita del poeta John Keats, il suo Daimon, colui che con la sua poesia invocava la necessità della Verità come un valore imprescindibile dalla Bellezza. Così, su un sottofondo jazz aderente alla leggerezza che accompagna il suo ricordo giovanile, comprendiamo il suo accostarsi precocemente alla lettura e alla scrittura, il suo desiderio di afferrare l’anima più profonda dell’essere umano, e quindi anche di girare il mondo per diffondere il proprio pensiero filosofico  come i versi di Keats esploravano le emozioni, diffuse con la parola in quel breve lasso di tempo che gli fu concesso di vivere, fino all’età di 27 anni, quando la morte lo colse a Roma, città che ancora oggi conserva i suoi resti. Ed è qui che prosegue la magnetica narrazione di De Feo, inframmezzata dai versi del poeta, evocati dalla extra-ordinaria voce off di Leo Gullotta, e le proiezioni videoartistiche, di pittura astratta, firmate da Roberto Rinaldi. Hillman si mette alla ricerca, nella drammaturgia di Paolo Vanacore sospesa tra realtà e immaginazione, del solco tracciato da Keats, ne cerca la tomba per rendergli omaggio, in un viaggio che è sì poetico e visionario, ma anche musicale: ad accompagnare questo racconto, infatti, le canzoni di Franco Battiato e Giuni Russo arrangiate da Alessandro Panattieri e cantate dal vivo da De Feo. Lo spettacolo si situa così, nel suo particolarissimo stile, a metà tra il teatro di narrazione e il musical, ma senza lo sfarzo tipico di quest’ultimo, che lo renderebbe indigesto o vilmente commerciale. L’effetto che ci procura, invece, è più accostabile al calore delle fiabe portate sul grande schermo.

 



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