“Hamlet” corre sul filo, con Giorgio Pasotti e Mariangela D’Abbraccio
Hamlet, liberamente tratto dall’omonima opera di Shakespeare, con Giorgio Pasotti e Mariangela D’Abbraccio diretti da Francesco Tavassi, ha chiuso la tournée 2022 al Teatro Grandinetti di Lamezia Terme nell’ambito della Stagione teatrale 2022.2023 organizzata da Ama Calabria con la direzione artistica di Francescantonio Pollice.
L’approccio contemporaneo ad uno dei testi sacri del teatro di tutti i tempi impone un rispetto reverenziale che può essere risolto solo mantenendo intatto lo “spirito” dell’opera. La traduzione e l’adattamento di Alessandro Angelini e Antonio Prisco, unitamente alla regia di Tavassi, riescono nell’impresa grazie ad un processo di spiazzamenti e accelerazioni e con una operazione di innesto di modalità linguistiche contemporanee che parte proprio dalla cornice.
L’ambientazione scelta da Alessandro Chiti è spinta in avanti con una scenografia da archeologia industriale, modulare e trasformabile, disposta su due livelli che collegano, attraverso una scala, l’interno della reggia di Elsinore con l’esterno. Un filo di luce, su cui Hamlet si produce in precari equilibrismi abitandoci come su un personale palcoscenico, attraversa l’intero spazio scenico. “Perché sei sempre su quel filo?” chiede Ofelia “perché da quassù il mondo è migliore”. L’uso del metaverso crea un universo immersivo e in continuo movimento che assorbe il corpo dei personaggi mentre, attraverso uno specchio deformante, viene evocato, con tragicità contemporanea, lo spettro del vecchio re.
Cupe penombre e invenzioni luministico-spaziali perimetrano le scene più celebri: dal famoso monologo di Hamlet “Essere o non essere” pronunciato su una bianca scogliera virtuale che ricorda tanto quella di Dover in Re Lear, al duello – a colpi fragorosi di spade di legno inventate con lunghi bastoni – fortemente improntato alle arti marziali.
I costumi di scena, firmati da Sabrina Beretta e Serena Manfredini, sono abiti moderni, lunghe vestaglie, tute nere esistenzialiste su cui si appoggiano felpe e trench, divise militari, costumi vagamente d’epoca indossati con nonchalance, stivaletti al polpaccio con linguetta rovesciata. In ciascuno si trovano elementi di lettura delle diverse stratificazioni culturali e dei diversi tempi: quello dell’azione, quello della scrittura e quello di decodifica dello spettatore contemporaneo.
Le scelte musicali, curate da Davide Cavuti, spaziano da Vivaldi a brani tradizionali con sonorità irlandesi e latino americane (Quizás, quizás, quizás) fino alla musica contemporanea dei Sigur Rós (Sæglópur), degli Who (Baba O’ Riley), dei Placebo (Running up that hill) e di Jordan Critz (Father’s Land) che ricorrono quando il regista vuole imprimere allo spettacolo robusti movimenti o scombinare tutto in veloci vortici di superficie.
La ricchezza ritmica disegnata da Tavassi delinea una discesa agli inferi di grande compattezza espressiva. Gli inferi sono quelli familiari, di un mondo chiuso in cui l’assolutezza delle passioni porta a uno scacco della ragione: odio e amore sensuale, desiderio di vendetta e compiacimento del potere, che, normalmente, sono segnali di una sia pur alterata maturità, qui fanno regredire i personaggi ad eroi senza qualità e senza futuro, inclini a volgere in farsa una loro intima vocazione alla tragedia. Tutti colpevoli e meschini proprio perché privi di innocenza e di un’autentica riconoscibilità umana che l’ecatombe finale rende vittime, nobilitandoli nel loro ruolo di personaggi tragici.
Il linguaggio shakespeariano è portato alla sua essenzialità, senza ridondanze o enfasi declamatorie, risultando immediatamente credibile laddove le incursioni della modernità trovano spazio nell’uso del cellulare, anticipato da uno squillo molesto fin dall’incipit e portato avanti dalla regina Gertrude attraverso il gioco dei selfie e delle storie su Instagram come strumenti di marketing turistico.
Giorgio Pasotti dà vita a un Hamlet “pop”, un antieroe del nostro tempo, con una sorta di emotività e gestualità alternative. Vive sospeso su quel filo che è il suo rifugio, il suo rifiuto del potere, del mondo della corte con i suoi inganni e la sua corruzione. In questo suo privato spazio di libertà egli è uomo e scopre la propria impossibilità di vivere insieme agli altri. Ma quel filo è anche una metaforica linea di confine che fa di Hamlet un personaggio oscillante tra il buffonesco e il tragico. Egli non è solo il principe emaciato che si crogiola sul crinale della presunta pazzia e si pone le grandi domande esistenziali, ma un atletico giovane che si produce, con vigoria, in corse, salti, balzi e capovolte coprendo l’ampiezza dell’intero palcoscenico. L’intensità delle sue passioni porta a una pienezza del personaggio, a una sua particolare “fisicità” che quasi costringe a un confronto fra la corporea presenza dell’interprete e il corpus dei segni teatrali che stanno dentro la scansione delle parole e il montaggio delle scene. Il suo corridoio con il mondo è rappresentato da Ofelia, personaggio di sensibile bellezza e dolcezza, portatrice di un erotismo quasi mistico che la brava Claudia Tosoni, in abito virginale, vena di fiera ribellione. Mentre sul tema ossessivo di un rapporto edipico, in cui la madre è metafora della violenza, lo spazio teatrale nel suo buio percorso da voci, richiami, regressioni all’infanzia virgolettate dal suono di un carillon e da un vecchio pelouche, apparizioni, è come un grande grembo che genera i personaggi e con il quale si confronta il protagonista che alla fine si lascia inghiottire dal “non essere”. Hamlet non muore ma si trasforma in una specie di homeless, di senzatetto, di rifiuto della società che, tra amare riflessioni filosofico-ecologiste, si lascia sommergere dai rifiuti, quasi una visione apocalittica post-moderna, mentre i Coldplay intonano A Sky Full of Stars.
Gertrude, interpretata da Mariangela D’Abbraccio, entra in scena come una dark Lady che si concede nevrastenie e vanità femminili con pose da sophisticated comedy e tratti di giovanile esuberanza. Il volto, dapprima fasciato da bende chirurgiche, è poi attraversato da luci fredde che le conferiscono espressioni mutevoli, ambigue. Ha toni e movimenti persuasivi ma li varia velocemente, passando da un parlato convincente a uno quasi isterico. Più che algida regina Mariangela/Gertrude è donna di morbida sensualità che vuole ancora suscitare desiderio “Sedurre, sedurre, sedurre. Per non morire, per non restare sole”. Eppure tra le intercapedini del suo cuore di mamma crudele si intravvedono vestigia di antica tenerezza, maldestri tentativi di carezze, offerte di cibo – dolce per Hamlet, salato per lei – come surrogato di quell’amore materno che lei ha sempre represso e negato.
Grande cura è stata riservata a tutti i personaggi: Guildenstern (Andrea Papale) e Rosencrantz (Salvatore Rancatore) sono permeati di ironia, due fool che risentono di un’amabile goffaggine divertendo con una sarabanda di azioni apparentemente sconnesse in cui le loro personalità, diverse come la loro fisicità, si misurano sulla scena e si completano nell’esaltazione di un gioco comico.
Magnificamente fatuo e ridondante il Re Claudio di Massimo Odierna. Pragmatico e decisionista il Polonio di Diego Migeni capace di esprimere la verità del proprio personaggio con concretezza materica e gestuale. Passione fredda e vigore motorio per il Laerte dell’ottimo Pio Stellaccio.
Uno spettacolo corale, questo Hamlet, enfatizzato dalla naturalità con cui tutti gli attori vivono, possiedono la scena e parlano Shakespeare con una lingua veloce, secca, essenziale che traduce benissimo la complessità linguistica e la grandiosità delle passioni del Grande Bardo e in cui si ritrova sempre la poesia di certi notturni shakespeariani, la poesia della follia e quella della morte.
[Immagine di copertina: foto di AMA Calabria]