“Double Side”: in sala prove con Sveva Berti per uno sguardo su Aterballetto
A pochi giorni dalla prima assoluta di Double Side, ultima creazione di Aterballetto, abbiamo incontrato la direttrice di compagnia Sveva Berti durante le prove di questo nuovo lavoro, un dittico frutto dell’incontro tra musica barocca e danza contemporanea.
Stabat Mater e With Drooping Wings sono le due coreografie che compongono lo spettacolo, rispettivamente firmate dal cubano Norge Cedeño Raffo e dalla canadese Danièle Desnoyers e realizzate in stretta collaborazione con l’orchestra La Toscanini di Parma.
Con Sveva Berti, storica danzatrice, Maître de ballet, coordinatrice artistica e direttrice di Aterballetto, partendo proprio dall’analisi di Double Side volgiamo lo sguardo sull’evoluzione di una compagnia come Aterballetto che, ancora oggi, è un punto fermo della produzione coreutica internazionale in Italia. Tra tradizione e innovazione, passiamo in rassegna i coreografi che hanno attraversato la compagnia, ma ci soffermiamo anche su quelli giovani e sui danzatori del nostro periodo e sulle diverse esigenze che oggi muovono l’operato di una compagnia che ha innovato il repertorio classico, aprendo le sue porte alla danza contemporanea internazionale e a nuovi circuiti, e che opera, oggi, come Centro Coreografico Nazionale.
Double Side è un dittico composto da due brani firmati da diversi coreografi, Norge Cedeño Raffo e Danièle Desnoyers, ma uniti dalla musica barocca. Perché nonostante questa linea comune le due coreografie rappresentano due poli opposti?
Hanno dei punti di contatto e altri di divergenza. Mentre al primo coreografo, autore della coreografia Stabat Mater è stato proposto di lavorare appunto sull’omonimo brano di Arvo Pärt, la seconda ha fatto una scelta in autonomia optando per Purcell e introducendo poi anche una piccola parte di musica elettronica (compositore). Anche la light designer Fabiana Piccioli ha contribuito nel tessere un filo conduttore tra questi due momenti di una serata idealmente divisa tra oscurità e luce. Stabat Mater appare sicuramente più cupo, indaga il ‘dopo’, anche per quanto concerne la morte, pertanto, è più intimo e lirico mentre si è cercato di rendere più solare With Drooping Wings che, pur analizzando anch’esso il ‘dopo’, fa pensare più alla rinascita. In entrambi c’è un forte simbolismo filosofico, mistico, così come dei riferimenti all’Araba Fenice che rinasce dalle proprie ceneri o alle varie personificazioni delle Vergine Maria.
Nel primo brano è evidente la ricerca del contatto tra terra e aldilà, c’è molta fisicità e ciò rende il tutto più ‘ballettistico’ mentre nel secondo vi è maggior astrazione e forse una maggiore ispirazione musicale.
Lo spettacolo nasce da una stretta collaborazione tra Aterballetto e l’orchestra La Toscanini di Parma. Come cambia il rapporto con la musica per ciascun coreografo?
Con Norge Cedeño Raffo siamo di fronte ad una creazione per tre danzatori, tre musicisti, tre cantanti mentre con Danièle Desnoyers abbiamo un lavoro per otto danzatori, quattro archi.
Entrambi riportano nel rapporto con la musica la loro cifra coreografica. Danièle è molto colta musicalmente e tesse un dialogo costante tra corpo e musica; Norge ha un vocabolario abbastanza classico e una qualità di movimento molto bella da cui risulta una creazione danzata più emotiva, in cui si dà molto risalto all’interpretazione. C’è un rapporto con la musica forte: i tre musicisti sono in un angolo della scena mentre i tre cantanti si muovono e interagiscono con la danza. In With Drooping Wings abbiamo uno stage bianco e i costumi dei danzatori sono colorati, c’è più luce e un sentimento diverso; ispirata soprattutto dalla musica, la coreografa si avvale della collaborazione del compositore Federico Gon che rivisita le opere di Purcell in una personalissima English suite fatta di varietà di forme e gioiosa vitalità.
Osservando la prova di Stabat Mater ci si rende conto che è una coreografia talmente fisica che i danzatori, concentrandosi eccessivamente sulla tecnica rischierebbero di perdere il senso di ciò che stanno danzando se il coreografo non li richiamasse sapientemente e costantemente sul concept. Come si articola il processo attraverso il quale il movimento viene trasmesso ai danzatori?
C’è sempre una storia in ciò che si danza, anche in un balletto astratto. Il coreografo ha il compito di spiegare ciò che vuole ai danzatori, di dare loro input. In tal caso si parla spesso della morte e della rinascita, i richiami alla figura della fenice sono molto preziosi ed esplicativi. Ovviamente, quando si lavora sull’interpretazione bisogna stare attenti a non sfociare nell’eccessivo pathos tanto di moda oggi. Inoltre, in Double Side era interessante far comprendere ai danzatori che si sta lavorando su una produzione diversa che può spaziare in più circuiti, proprio perché costruita sul rapporto con la musica dal vivo.
La direzione di Gigi Cristoforetti, il vostro continuo confronto con l’esterno, l’apertura ai circuiti differenti e la vostra trasformazione in Centro Coreografico Nazionale denotano grandi cambiamenti. Per Lei che hai vissuto Aterballetto dai suoi primi anni prima come danzatrice, poi come maître e oggi come direttrice artistica: com’è cambiata la compagnia?
La compagnia è cambiata molto, oggi è molto più contemporanea. Diciamo che ciò che si è mantenuto è il livello, rimasto molto alto. Il cambiamento più netto si è avuto a seguito del fatto che prima c’era un solo coreografo. Agli inizi con Amedeo Amodio avevamo un linguaggio molto più classico, lavoravamo sulle punte, danzavamo balletti di Tetley, Balanchine, Ailey. Con Mauro Bigonzetti si è delineato uno stile più preciso, contemporaneo. I nostri danzatori si stavano specializzando su quella cifra e, anche se ogni tanto riprendevamo dei classici, l’impronta, lo stile, il repertorio, ormai, erano suoi. Con la direzione di Cristina Bozzolini ci siamo aperti a più coreografi, a linguaggi nuovi e oggi i danzatori sono più pronti, versatili, aperti al cambiamento e all’improvvisazione.
Quali tendenze si notano sul panorama della danza contemporanea oggi? Non Le sembra che sia stato detto un po’ tutto?
È esattamente così. È un periodo difficile per i nuovi coreografi. Succede sempre così, come con la moda. Il periodo migliore è stato quello di Mats Ek, Jiří Kylián, Glen Tetley. Loro sì che erano innovativi, così come la generazione immediatamente successiva. Basta pensare ad esempio a Johan Inger o a Mauro Bigonzetti che, avendo vissuto da danzatori il periodo dei primi, hanno poi ‘rielaborato’ quelle innovazioni. Adesso i nuovi giovani coreografi fanno fatica a produrre del nuovo, perché si è già detto tanto, decomposto tanto. Pensa a Forsythe che ha rotto e decomposto schemi, regole, ecc… E poi internet non aiuta, perché partono tutti da lì. Ricordo che quando Mauro Bigonzetti creava lui si sperimentava, provava, restavamo in sala in pochi, fuori dall’orario di lavoro e provavamo, provavamo. Ora si nota molto iper-atletismo o, per contro, iper-cerebralismo. Tutti si copiano, si assomigliano. Noi cerchiamo di scegliere chi mostra di avere una propria cifra stilistica.
In Aterballetto lei è anche Maître di compagnia. Come si muove in tal senso?
Credo ancora tantissimo nella lezione di danza classica. Ovviamente non è una lezione di danza classica che prepara a danzare Il lago dei cigni ma è una lezione, sicuramente di mio gusto, che però serve a dare una base fisica e un ordine mentale. Ultimamente invitiamo spesso anche coreografi e guest teachers di danza contemporanea, facciamo laboratori, masterclass, studiamo varie tecniche, ci aggiorniamo. Ma per me la lezione di danza classica resta sacrosanta.
Come definirebbe Aterballetto oggi?
Teniamo una linea tra passato e presente, siamo più aperti, pronti a vari tipi di progetti. Portiamo la danza in più circuiti (pensa ai progetti site-specific o a MicroDanze), ma mantenendo comunque l’aspetto di tradizione.