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La fiaba di Re Pipuzzu e Reginotta rivive nel melologo di Dario De Luca e Gianfranco De Franco

Giovanna Villella

Un ritorno all’infanzia, quasi una regressione felice, l’immersione in una atmosfera magica evocata già nell’incipit con quell’attacco che sa di calore e di affetti domestici, «C’era ‘na vota… ‘Na vota c’era». Un omaggio alle novellatrici di un tempo, custodi preziose della tradizione orale, maestre di vita e di fantasia. È Re Pipuzzu fattu a manu. Melologo calabrese per tre finali di e con Dario De Luca, attore, autore, regista della compagnia Scena Verticale e co-direttore artistico del festival Primavera dei Teatri e il Gianfranco De Franco. Lo spettacolo, andato in scena per la nuova stagione teatrale Vacantiandu con la direzione artistica di Diego Ruiz e Nico Morelli al Teatro Grandinetti di Lamezia Terme, è liberamente tratto dalla raccolta di fiabe e novelle calabresi Re Pepe e il vento magico di Letterio Di Francia (Donzelli Editore).

A dispetto del titolo, la protagonista è una donna, Reginotta, figlia di re e orfana di madre. Con il solo potere di parole antiche, suggestioni e incantesimi rivivono attraverso la voce e i gesti di Dario De Luca, in gonna lunga a balze e piedi nudi. La sua lingua, cullante come una cantilena, abbraccia i tanti dialetti che gravitano nella provincia di Cosenza e risulta felicemente contaminata da preziosi inserti sonori, filastrocche in rima baciata o alternata, modi di dire attinti dal linguaggio popolare, nomi altisonanti seguiti da commenti che ne amplificano, ironicamente, la pregnanza.

De Luca è una straordinaria Reginotta. Si porta dentro una forza che riesce a comunicare con semplicità. Questo personaggio femminile diventa una creatura modernissima che rivendica il diritto di scegliere chi amare. Libera, volitiva e impavida, lontana dai cliché delle principesse bionde, pallide e in eterna attesa del principe azzurro. Reginotta proietta il pubblico in un passato spiazzante, matriarcale e femminista dove sono le donne a tessere i destini della vita e, come colta da delirio di onnipotenza, reclama per sé il potere della creazione e il marito se lo impasta da sola. La ricetta? Un cantaro di farina, un cantaro di zucchero, tre barili di acqua della Sila, una tazza di lievito e un peperoncino rosso juschente al posto della bocca perché «quandu mi vasa m’a da vrusciare e quando mi parra m’a d’appicciare». E ancora, un pizzico di sale, tanta intelligenza, mezza tazza di bontà, una tazza di fedeltà, simpatia quanto basta, mezza tazza di gelosia, una tazza di passione, tanto coraggio, sperando che di quest’ultimo non ne abbia troppo bisogno. Tempo di preparazione: 6 mesi. Difficoltà: alta.

Seguendo i movimenti lenti e decisi del setaccio, le mani di Dario De Luca disegnano amorevoli carezze nel vuoto, la figura di Re Pipuzzo si materializza nello spazio mentale dello spettatore attraverso lo sguardo stellato di Reginotta «Mo a sustanza c’è». Un fragrante reuccio di pastafrolla, coacervo di simboli culturali e valenze antropologiche. La farina, in tutte le sue varietà, è l’alimento base della dieta mediterranea; lo zucchero, bianco e dolce, il desiderio proibito dei poveri; il peperoncino rosso, piccante e afrodisiaco ha segnato l’alimentazione e l’identità di un intero popolo, simbolo di erotismo, viene collocato al posto della bocca che è legata alla parola, al nutrimento e, soprattutto, al bacio, primo contatto erotico-sensuale con la persona amata. Così la fiaba assume un valore fortemente desiderante e identitario.

Foto di Desme digital

Ma la felicità è un respiro breve e dopo il rapimento di Re Pipuzzo da parte di un malu ventu che lo porta via come un uccello, una foglia, un pensiero, la fiaba acquista il sapore dell’avventura ma, anche, di un viaggio di formazione. Reginotta parte alla ricerca disperata del suo amato e incontra gli altri personaggi della fiaba, tre vecchi eremiti che le fanno dono di una castagna, una noce e una nocciola i cui poteri magici sono anticipati da nebbie azzurrine e vapori sulfurei: la Draghessa e la sua cameriera, e la guardia del carcere. E proprio della Draghessa, il cui nome prelude ad una figura femminile di “mangiatrice di uomini”, De Luca traccia, in filigrana, un mirabile ritratto di dark lady, femmina a tutto tondo, di verace sensualità e audace erotismo, spietata e perdente che da carnefice diventa vittima, soprattutto di sé stessa.

L’incantevole paesaggio sonoro creato da Gianfranco De Franco con strumenti della tradizione (flauto traverso e clarinetto in do) in dialogo costante con una strumentazione elettronica moderna (theremin, sintetizzatori e pedali per effettistica), non è solo di accompagnamento – come pure accade nella gioiosa esplosione della tarantella finale – ma sottotesto dell’azione scenica, si fa personaggio indispensabile per mantenere la vivacità dello spettacolo ricreando i suoni della natura, comunicando elementi narrativi non rappresentati e funzionali all’intreccio, commentando gli stati d’animo e i sentimenti dei protagonisti insieme alle luci che, sapientemente distribuite, variano in colore e intensità.

La trasposizione in melologo di questa antica fiaba calabrese è straordinariamente inquieta e ricca di innumerevoli possibilità di attraversamento, così come i tre finali proposti da De Luca alla fine di ogni rappresentazione e che il pubblico femminile è chiamato a scegliere.

Il risultato è un mirabile esempio di teatro di parola dove scrittura, rappresentazione scenica, presenza attoriale, testo e musica si fondono in un corpo unico di grande seduzione.

 

[Immagine di copertina: foto di Desme digital]



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