Pasquale Marrazzo // Elettra
Milano, Teatro Litta. Dal 9 al 14 novembre è andata in scena Elettra di Giovanni Testori per la regia di Pasquale Marrazzo. La scrittura della omonima tragedia di Sofocle (che andò in scena per la prima volta nel V secolo a.C.) riprende l’impianto dell’originale declinando alcuni passaggi – fondamentali – in modo innovativo ed intimamente personale. Testori, infatti, scrittore e regista teatrale milanese affermatosi tra gli anni ’70 e gli anni ’90 e noto per aver reinterpretato alcune tragedie considerate dei capisaldi della letteratura teatrale mondiale (“La trilogia degli Scarrozzanti”, formata da Ambleto, Macbetto ed Edipus ne è l’esempio emblematico), racconta un dramma emozionante che lascia spettatori e spettatrici col fiato sospeso per l’intera durata dello spettacolo.
Sulla scena campeggia Elettra (Emanuela Villagrossi) dall’aspetto scialbamente regale: il regno di Micene, con l’assassinio del suo re Agamennone, padre della donna, è tramontato. A rafforzare questa idea, una scenografia essenzialmente rappresentata da assi di legno penzolanti dal soffitto, testimonianza di un trono decaduto e di cui nessun’altra persona (né Clitemnestra, la moglie omicida, né Oreste, il figlio “scomparso”) potrà essere degna erede.
Elettra squarcia il buio della sala e si mostra nella sua “divina infelicità”, raccontando nel suo monologo introduttivo che il “vuoto” in cui riversa nasce dall’avidità paterna (allude qui al rientro trionfante dalla guerra di Troia di Agamennone e della sua amante Cassandra) e dall’assenza del fratello Oreste che tutta la comunità crede morto, ma che lei spera si sia allontanato temporaneamente da Micene per meditare vendetta contro la madre omicida e contro l’usurpazione del trono da parte di Egisto, l’amante di lei.
Clitemnestra (Rossana Gay) subentra sulla scena dopo il monologo di sua figlia. Anche lei è vestita di bianco, ma ha uno sguardo altero e tronfio, assetato ancora della vendetta che si è già consumata. Rimembra, con vigore, l’omicidio compiuto e in un fervido monologo rimprovera Elettra di essere diventata «una pianta rinsecchita», una «cagna», una «vergine insoddisfatta», addebitando queste offese al comportamento passivamente adorante di lei nei confronti di Oreste, che invece la genitrice odia ardentemente poiché – e qui c’è un turning point interessante e personalissimo – il figlio assomiglia a suo padre e non a sua madre. La sovrapposizione tra Oreste e Agamennone sembrerebbe rappresentare in questa versione del dramma il vero nodo tragico e rende irreversibilmente dirimenti le due figure femminili, coprotagoniste sulla scena: l’amore della sorella per il fratello è inversamente proporzionale all’odio della madre nei confronti del figlio. Il motivo del delitto di Clitmenestra non è soltanto il frutto del tradimento subito (l’amore adultero tra Agamennone e Cassandra), ma nasce dall’impossibilità per la donna di accettare una somiglianza fisica tra padre e figlio che porterà la madre a desiderare la morte del figlio con la stessa veemenza con cui ha desiderato la morte del marito: «io desidero la morte di Oreste per la salvezza della mia dignità», sentenzia. Per Clitemnestra probabilmente la morte di Oreste completa il processo di catarsi e di liberazione dall’amore/odio per Agamennone e potrebbe dare un nuovo volto alla stirpe degli Atridi. L’inconciliabilità tra le due realtà viene corroborata dall’arrivo di Oreste sulla scena (Alessandra Salamida: la scelta registica ricade su un’attrice anche nell’interpretazione della parte maschile). La sua comparsa nel dramma si discosta decisamente dall’originale e si intravede una eco di matrice eschilea (tratta dalla terza tragedia della trilogia dell’Orestea, Le Eumenidi) : messo in prigione da Clitemnestra ed Egisto (interpretato dalla stessa Alessandra Salamida bravissima nell’alternare due parti), la sua colpevolezza o la sua assoluzione dipenderanno dall’Areopago, il tribunale di Atene, che può essere considerato come l’antesignano di istituzioni più interamente democratiche che nasceranno poco dopo con Clistene, il padre della democrazia ateniese. Il passaggio dal ritorno di lui all’attesa della decisione del tribunale è fulmineo: sulla scena questo “stacco” tra improvvisi riff elettrici fuori campo e sonorità dolcissime (ammirevole la scelta di “Can’t Help Falling In Love With You” di Elvis Presley) è suggellato dal bacio tra Oreste e Elettra che sembra per un momento sgretolare la catena d’odio che grava sulla famiglia degli Atridi. Elettra aspetta fiduciosa: «I vivi, se a loro non resta altro, possono almeno avere fede nella giustizia». Quando pensiamo che il dramma stia ribaltandosi in favore di un epilogo paradossalmente felice, risuona la condanna di Oreste nelle parole di Egisto che legge il verdetto. A quel punto Elettra non resta inerme e, in nome di quella felicità che sostiene «renderle infaticabile l’odio», uccide Egisto e aspetta in silenzio che Oreste uccida Clitemnestra, l’unica superstite. Sul punto di morire – confluente con il momento più tragico di tutto il dramma – grida al figlio: «Ti ho amato così tanto da desiderare la tua morte». Morirà per questo, uccisa dalle mani di quel figlio che nel finale porrà fine anche alla sua, di vita. Cancellare queste vite è perpetrarne l’eternità dell’amore: quando nel finale Clitemnestra appare in sogno ad Elettra, dirà, appunto, che Oreste è morto pronunciando la parola amore. Il tragico si è interamente compiuto. Elettra si chiude in sé stessa e il sipario cala: questo dramma scritto con lucidità e interpretato con un’intensità enorme ci ricorda che amare e soffrire sono i risvolti della stessa medaglia.
ELETTRA
di Giovanni Testori
con Emanuela Villagrossi, Rossana Gay e Alessandra Salamida
regia Pasquale Marrazzo
Scene e costumi: Pasquale Marrazzo
Disegno Luci: Marco Meola