Tà-kài-Tà (Eduardo per Eduardo)
Il teatro di Enzo Moscato è fatto di solitudini, anche fisiche, sul palcoscenico, di carne martoriata e violata, di visioni in cui vita e morte si confondono in una partitura fatta di parole, immagini, cose. Tutti questi elementi si ritrovano in Tà-kài-Tà (Eduardo per Eduardo), spettacolo dedicato ad Eduardo De Filippo e portato in scena per la prima volta nel 2012 al Teatro Nuovo di Napoli. Il testo è stato recentemente pubblicato dalla casa editrice Editoria & Spettacolo –con il contributo del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Salerno- in un agile volumetto curato da Antonia Lezza, docente e studiosa di Letteratura teatrale italiana particolarmente attenta alla drammaturgia in lingua napoletana.
L’opera -come chiarisce la curatrice nel suo breve saggio introduttivo- non ha carattere biografico o critico-argomentativo sul teatro di Eduardo, ma piuttosto vuole essere, come scrive lo stesso Moscato, «un periplo immaginario, fantastico, intorno ai pensieri e ai sentimenti, ante e post mortem, che possono avergli toccato, per un attimo, l’anima e il cuore». Al centro vi è l’idea che i morti non lascino mai del tutto la vita terrena, ma che al contrario vi sia, soprattutto per le intelligenze superiori, la possibilità di continuare a vivere attraverso le parole e l’immaginazione.
D’altronde già il titolo della pièce, apparentemente oscuro, sembra evocare nella sua sonorità arcaica uno scenario magico, rituale, una dimensione dove la vita possa proseguire anche in assenza di materia. In realtà l’espressione Tà-kài-Tà deriva dal greco antico e vuol dire letteralmente questo e quello, ed è in primo luogo un riferimento ad una sceneggiatura cinematografica che Pierpaolo Pasolini scrisse per Eduardo (successivamente intitolata Porno-Teo-Kolossal).
Eduardo e Pasolini, due uomini condannati alla solitudine. L’uno per il rigore delle proprie abitudini teatrali, per essere considerato «perfido, meschino ed egoista. N’arraffone, per giunta. N’invidioso, del talento e del bene dei fratelli. Un guasta- famiglia, dal sangue freddo, acido, stopposo…» scrive Moscato in Tà-kài-Tà. L’altro per la coerenza delle proprie scelte ideologiche.
Il film non vide però mai la luce a causa dell’assassinio di Pasolini, avvenuto il 2 novembre del 1975, e nelle parole che Moscato fa pronunciare al “suo” Eduardo ci sono tutta la tenerezza e il dolore per il tragico evento, ma anche il rifiuto di qualsiasi giudizio conformista rispetto all’opera del regista e scrittore friulano:
« Era soprattutto un uomo molto buono-dissi a me stesso-quando, dal televisore acceso, seppi, il giorno dopo, due novembre, dì dei Morti, che lo avevano ammazzato brutalmente.
No. Non dissi che era un poeta, non dissi che era stato un grande- come facevano tanti, come facevano tutti- pe se levà ‘a miézo, cu na parola nobile, nu suspiro diplomatico: parole/suspiro neutri, fraseggi da Pilato, can nun lèvano e nun mettono…-
No, no: ricordo che dissi semplicemente così: che era, soprattutto, ormai era stato!, un uomo molto buono…»
Ma Tà-kài-Tà non è solo il racconto di una collaborazione drammaticamente interrotta tra due immensi artisti uniti da una comune sensibilità, da uno sguardo critico e disincantato sulla società contemporanea. E’ soprattutto, come si diceva, un viaggio verso l’inesplorato groviglio di sentimenti pubblici e privati dell’Eduardo uomo e autore/attore alla scoperta, appunto, del questoe del quello e dei suoi mille volti, a volte a lui stesso impenetrabili.
«Io ho avuto zone oscure del mio cuore. Incoscienze impenetrabili. L’anima mia, a tratti, è stata vocca ‘e lupo. Intricata, reticente, misteriosa, buia. Cierte penziere sono stati abissi, insondabili ed ostili».
Ecco perché, nella costruzione drammaturgica moscatiana, i pensieri dell’unico io narrante si incarnano in più personaggi, a partire dalle due figure, centrali in questo testo, di E.1 ed E.2, un uomo e una donna dai capelli bianchissimi, interpretati nella messinscena del 2012 da Moscato stesso e Isa Danieli. Una chiara immagine dell’anima di Eduardo che rivive, ma in frammenti «d’internità o “animità”», squarci di una vita vissuta tra le fatiche del palcoscenico e dolori privati. Tra questi ultimi il difficile rapporto con il padre naturale Eduardo Scarpetta -su cui per tutta la vita mantenne un rigoroso riserbo- e con i fratelli Peppino e Titina e la morte della figlia Luisella all’età di dieci anni.
E’proprio a Luisella -«l’autentica mia pena…il segreto dolore, che, tanto in assoluto, per bene, ho conosciuto!»- o meglio al suo doppio adulto, la Devota Attrice, personaggio che prende corpo da una teca vitrea dove è deposto il corpicino della bambina morta, che sono affidate le parole che racchiudono tutto il senso della pièce: «Eduardo è una specie di cristallo –non so neanch’io di quanti angoli, spìgoli, riflessi, sfaccettature, dièdri, simmetrie: piccoli-infiniti labirinti di chiarore, o anche di cupezza, ma sempre nel cristallo, nel sasso, nella gemma- nella pietra che sappiamo matematica e geometrica, precisa, umile-grande cosa che teniam tutta racchiusa nel cavo stesso della mano e nella testa, nel cuore, nell’inerme così attuale delle vene».
Sono questi frammenti a comporre il ritratto intimo di una personalità complessa, contraddittoria, sofferta, generosa e cinica, un po’ come i testi delle sue commedie, ricchi di brillante umorismo e di tanta amara verità.
Ad essi si alternano tornate «“d’esternità” o “esternazioni”» del coro dei Fantasmi e dei Giovani Spiriti, figure di Ritornanti dall’oltretomba come presenze fisiche o anche solo come ombre, che ripetono frasi e pensieri tratti dall’universo drammaturgico eduardiano.
Voci e corpi per una sola anima le cui parole, in questo sdoppiamento, tornano ad essere vive e palpitanti. Perché -come scrive ancora Moscato- «Nessuna parola già detta andrebbe abbandonata mai, in teatro. Nessuno movimento, nessun gesto, nessun respiro già vissuti, dovrebbero essere considerati finiti, de-finiti, esauriti. Morti».