“Questa lettera sul pagliaccio morto”: le domande di una vita qualunque
Davide Pascarella, giovane attore, autore e regista debutta nell’ambito della XX edizione del festival Tramedautore il 14 settembre al Piccolo Teatro Grassi con il suo primo lavoro, Questa lettera sul pagliaccio morto, di cui firma testo, regia, spazio e luci, interpretato da Paola Senatore. Lo spettacolo è il racconto di una vita che si sta spegnendo nelle parole di una macchinista che, con il suo treno, ha investito un uomo che consapevolmente si trovava sui binari. Come può una vita raccontarne un’altra che si è spenta? Questa e molte altre domande ispirano la storia, che è anche in un certo senso il fulcro della ricerca artistica di Davide; i suoi interrogativi aprono una finestra affacciata su un mondo tanto intrigante quanto precario: quello circense; un mondo nel quale il pagliaccio si trova a vivere per caso e che decide poi di abbandonare con piena coscienza di sé. Il giovane artista con le sue parole, cariche di una profondità e di una maturità che raramente appartiene ai suoi coetanei, offre l’occasione di una connessione tra il sogno e il reale presente in un mondo quasi fuori dal tempo e che ha in comune molto più di quanto si possa credere con il “nostro” momento storico. Con un testo di una bellezza complessa ma che conserva allo stesso tempo qualcosa di antico e poetico, Davide arriva al cuore dello spettatore e lo invita a riflettere sul senso della morte, del tempo e della memoria. Con i suoi interrogativi che scuotono lo spirito.
Davide, un autore così giovane compone come sua prima opera un lavoro dal sapore carducciano con toni e contenuti che sembrano denotare una profonda maturità. Qual è la forza motrice del testo?
Quando ho scritto le prime parole di questo testo, nel 2016, avevo appena compiuto 19 anni e avevo solo un’immagine in testa: un treno, una ruota che gira, un uomo morente. Veniva da un fatto di cui avevo letto su un giornale di Acerra: un uomo era stato travolto da un treno, a pochi passi da casa mia, mentre attraversava i binari a passaggio a livello chiuso. Non si capiva se era un suicidio o un incidente, fatto sta che aveva con sé una bicicletta, che la mia testa trasformò quasi subito in un monociclo, e da qui il pagliaccio. Immediatamente si materializzarono le prime parole, che sono quelle con cui ancora oggi comincia lo spettacolo, e con loro si materializzò l’altro protagonista di questa storia: non solo il pagliaccio, l’investito, ma anche la macchinista, “l’investente”. Anche se non saprò mai se quell’uomo cercava la morte oppure no quel giorno di inizio giugno ad Acerra, credo che il testo abbia risucchiato da quell’evento una grande domanda: perché chi muore muore? Cioè, meglio: cosa spinge a morire chi sceglie di morire? Altre due storie hanno amplificato questo punto, negli anni seguenti, e hanno mantenuto acceso il fuoco di questo testo, che ho scritto in sessioni distanti anche un anno e mezzo l’una dall’altra: quella di un sedicenne chiamato Serghey, che si è lanciato dal tetto di casa, e quella di Giada, che invece a 26 anni si è lasciata cadere dal tetto dell’università. A loro spesso ho rivolto tanti pensieri, tante riflessioni, tante domande. È la vita, la forza motrice del testo: la vita nel suo scomparire, ma anche la vita nel suo aggrapparsi a se stessa, per restare viva. Perché credo ci sia anche un’altra domanda che pulsa nel testo: come non si muore morendo? E di questo mistero, di cui qualche poeta ha provato a intravedere una soluzione, ne parliamo da millenni. Io non ho che immaginazioni ed emozioni per provare a scoprirlo, e queste ho provato a mettere in campo per attraversare questa storia e queste domande, così grandi e così fuori scala – soprattutto per me.
Protagonista del tuo lavoro è un pagliaccio, figura da sempre ambigua, che desta strane reazioni in chi assiste ai suoi numeri circensi. Perché ti servi di questa “maschera” che oscilla tra l’inquietante e il divertente?
Prima di tutto, direi che è protagonista fino a un certo punto. Se è vero che siamo davanti a una Pietà, una sorta di Pietà con un pagliaccio morente in luogo del Cristo, allora i protagonisti sono due: lui e lei, Zebbo e la macchinista, Gesù e Maria. Non ho scritto di un pagliaccio per scrivere di un simbolo. Zebbo Brkyglash è un uomo che di mestiere fa il pagliaccio. La sua maschera non è una maschera che serve come icona, è il trucco di scena, incrostato di sudore, è un lavoro. E forse è proprio questa una delle fratture di questo personaggio. «Io il circo / non lo volevo fare il circo. / Ti ci trovi dentro perché c’è una paga / c’è un giro / c’è un nome / ti chiamano con un nome / e io gliel’ho detto il nome / e gli ho detto Brkyglash / per guardare le stelle sotto la notte / con il mio compagno di tenda Mike». Il circo capita, così come capitano certi lavori, certi amori, certe amicizie. Iniziano e non stai lì a chiederti il perché. Ti trovi un motivo, lasci una vita per incominciarne un’altra, mentre non sai neanche cosa stai cercando. E solo dopo tanto tempo capisci cosa hai cercato, cosa hai trovato, cosa hai perduto. Zebbo è così. Nasce in una carovana, ma sente di non essere figlio di quel mondo, allora inizia a girare col circo, ma non sa neanche in che lingua parlare alle persone che vengono a vederlo. I bambini ti chiedono di essere il loro eroe, ma se tu non ci credi agli eroi? E quando ti affacci alla finestra, cinque minuti prima dello spettacolo, vedi che la sera è scesa e ti dici: «Ma io, qua, che ci sto a fare?». Come fai a trovare le forze di andare e fare lo spettacolo? E cosa succede se metti in fila tutti quei cinque minuti, giorno per giorno, per anni e anni e ancora anni? E le persone che hai visto e con cui non hai parlato, e i giorni in cui volevi piangere e non l’hai fatto, e i desideri che non sapevi neanche di avere, di cui hai scoperto l’esistenza troppo tardi? Cosa succede, poi, quando decidi di essere tu a decidere che è arrivato il momento giusto per finirla qui? Ecco, non mi sono precisamente “servito” di questa maschera, visto che non ho usato una maschera ma un uomo, tuttavia lui si è servito di me, delle mie fragilità “teatrali”, delle mie domande sul senso del teatro e del fare l’attore, per raccontarmi (e quindi farmi raccontare) una storia di amore disperato, di ricerca della vita in ogni brandello di mondo. A volte ci vuole una vita intera per capire il sole che sorge. A volte ci vuole la morte di un pagliaccio tra le tue braccia per capirlo anche tu.
La memoria sembra essere un punto fondamentale dello spettacolo. Che funzione ha secondo te?
Una delle prime cose che ho capito quando ho iniziato a fare teatro, a vedere spettacoli, è stata che la memoria non è un’entità astratta, qualcosa come “la sensibilità” o “la speranza”, ma è un senso fisico, come la vista o il tatto. L’ho capito quando mi sono ritrovato a piangere per uno spettacolo visto mesi prima, per cui non avevo versato una sola lacrima al momento degli applausi finali. I miei ricordi avevano masticato quella materia, l’avevano scomposta e me l’avevano restituita sublimata, in una forma più grezza, più pura, tanto tempo dopo. Così credo di aver capito che la memoria mette in ordine gli eventi, interviene su ciò che i sensi registrano, ne modifica l’esperienza. È un senso che dà il senso. In qualche modo, insomma, è il senso dei sensi. Forse è per questo che ho cominciato a scrivere uno spettacolo incentrato sul senso di raccontare, sull’incidere la propria storia nella memoria di qualcun altro, addirittura in una situazione estrema come quella della morte imminente. E forse è per questo che ho deciso di chiamare “tEATROMEMORIA”, con le maiuscole invertite, il mio progetto teatrale personale, per cercare di svincolarlo dal mio nome e cognome e consegnarlo a una ricerca più grande, più complessa, fatta di temi e domande, che vadano oltre la mia carta d’identità. Il mio maestro Gabriele Vacis, un giorno, ci raccontò del Racconto del Vajont e del perché aveva creato quell’opera che poi è rimasta nella storia del teatro contemporaneo italiano. Più o meno, secondo i confusi appunti che presi quel giorno su un taccuino, Gabriele disse questo: «Abbiamo iniziato a raccontare per ridare dignità allo scorrere del tempo. Se dei topi nascono in acqua gelida, vivono per sempre con la paura dell’acqua. Anche i figli di questi topi vivono per sempre con la paura dell’acqua, senza che sia necessario che nascano nell’acqua gelida. Solo i nipoti torneranno a nascere senza quella paura. Il tempo biologico in cui la memoria svanisce è di tre generazioni. I nostri padri erano i figli. I figli di chi aveva visto Auschwitz e le bombe su Dresda. E noi siamo i nipoti. Noi stiamo dimenticando geneticamente, biologicamente. In questa perdita di senso cosa si può fare? Così nasce la necessità del racconto. La narrazione è la negazione della perdita del senso». Queste parole mi sono rimaste così impresse che sono diventate l’introduzione del mio secondo testo teatrale. Insomma, lui era andato a raccontare la storia del Vajont, sul Vajont, perché i figli e i nipoti di quelle persone la stavano dimenticando. Il racconto doveva negare la perdita del senso. Ma è possibile che raccontare, e ricordare, siano sinonimi di fare un miracolo? Con questo bagaglio emotivo, credo, ho portato con me “la memoria” in quello che Questa lettera sul pagliaccio morto racconta. Negare la perdita del senso più grande di tutti: la morte. Morire trasformandosi in altra vita: l’unico miracolo che, in fondo, riesco a immaginare. Il testo di questo spettacolo, in calce, finisce con questi versi di Wislawa Szymborska: «Non c’è vita / che almeno per un attimo / non sia stata immortale».
Che connessione c’è tra il tuo pagliaccio e il mondo contemporaneo?
Zebbo Brkyglash è «nato rom, nomade», come ci dice lui stesso la prima volta che apre bocca. Ed è morto oggi – se non nel 2020, nel 2017 – travolto da un treno da qualche parte nel nord Italia, vicino al mare. Ma ha fatto duemila chilometri con il suo monociclo e i suoi vestiti da pagliaccio, perché viene da lontano, e parla una «lingua strana, straniera, estera, bulgara», che forse è «polacco», ma che in fondo è «la lingua dei nomadi». Ha passato una vita intera a girare, prima con i nomadi e poi con i circensi, senza mai capire il senso del perché continuasse a girare. Ma un giorno, tra tutti questi giri, è capitato anche in una città dove non c’erano più maschi. Se è il 1986 e sei in Est Europa, forse non sai che c’è un disastro nucleare, e se lo sai non sai davvero tutto, e l’unica cosa che sai è che non esistono più città normali, e che alcuni uomini non torneranno più. Forse è questo l’unico momento in cui la storia di Zebbo si incrocia con la Storia con la S maiuscola, in cui si innesca il cortocircuito tra la microstoria personale di ciascuno e la storia dell’Uomo come organismo collettivo, come insieme di fratelli (parola molto cara a Zebbo): l’arrivo nella «città dei fiori / dalla terra nera, la città senza più maschi». Per il resto, la connessione tra lui e il mondo è una connessione poetica, fatta dal fatto che piangiamo tutti di lacrime simili e simili dolori, e che il cielo che guardiamo e sotto cui viviamo è lo stesso, e ci accomuna tutti. Anche se “non hai neanche le parole giuste per dire a qualcuno / hai visto che bello stasera?“. La carovana e il circo sono quasi due pianeti da cui si riesce a scendere solo per morire. È la macchinista, invece, che è veramente connessa con il mondo. Anzi, più che connessa, forse lo porta proprio sulle spalle. L’alienazione, l’ingenuità. “Devo rinnovare il contratto? Devo fare una figlia? Devo vivere?”. “Sono una macchina o una macchinista io? Perché aspetto la luce? Signor ingegnere perché ci affacciamo dalla finestra, per vedere qualcosa o per sperare di non vedere più niente?”. La sua disperazione senza parole, la sua scoperta che esiste un mondo che ci viene raccontato che non è vero, forse è la cosa di più simile alla parola “alienazione” che io conosca. E l’alienazione, insieme al tema della morte, che il mondo occidentale non ha ancora affrontato e provato a risolvere davvero, è uno dei simboli più dolorosi del “mondo contemporaneo”. In questo, credo di dovere tutto al Lulù Massa che recitò quel gigante, il più grande attore italiano, che si chiamava Gian Maria Volontè. Quel personaggio ci ha insegnato fino alle lacrime che le rivoluzioni personali sono rivoluzioni politiche, e che cambiare se stessi può cambiare il mondo. Una volta, studiando un testo di Dürrenmatt, scrissi questo: «Non è questo spettacolo che cambierà il mondo? Forse, io invece dico che molte cose possono cambiare qualcuno, che può cambiare qualcuno, che può cambiare qualcuno, che può cambiare qualcuno che cambierà il mondo». Chissà se questa cosa potrà valere anche per questi due cristi, questo pagliaccio e questa macchinista che si scontrano sulla strada ferrata. Per il resto, ho solo domande che continuo a pormi, più che altre risposte da dare. E per questo, mi va di condividere un pezzo delle pseudo-note di regia, che avevo scritto il giorno prima dell’inizio della prima residenza dello spettacolo per mettere in ordine ciò che avevo in testa: «Con questo primo lavoro, cerco di interrogare me stesso prima ancora che la scena, e poi cerco di interrogare la scena con la stessa innocenza di quando interrogo me stesso. Qual è il senso del racconto? Se ti racconto una cosa posso cambiarti la vita? Ha senso che una cosa debba essere “vera” per significare? Cosa porta le persone a scegliere di morire? Cosa racconta di noi nonostante noi? Com’è possibile che le cose “finte” ci trasformino? Come fanno le cose poetiche a essere dette facendosi concrete? Come posso fare quello che mi piace? Come possono comunicare fra loro le cose immensamente grandi, come l’universo, e immensamente piccole, come una carezza?». Queste domande le pongo al mio testo e le lascio a macerare come un humus, o a evaporare, aspettandomi che piovano sulla mia testa ignara nei momenti inaspettati, mentre insieme cerchiamo di interpretare la storia di due personaggi diversi ma con una direzione – purtroppo – comune.
[Immagine di copertina: foto di Guido Mencari]