Cinema Festival

City Hall

Stefano Valva

Le elezioni USA 2020 hanno sancito la fine del trumpismo – o almeno per alcuni politologi una prima fase – a causa della vittoria (non senza polemiche e ancora non del tutto formalizzata) del vice-presidente della doppia presidenza Obama, ossia Joe Biden. 

Considerando l’attualità, la visione della nuova opera del maestro americano dei documentari, ossia Frederick Wiseman, risulta – aldilà di ulteriori motivazioni – decisamente interessante, dato che essa seppur ambientata in un America recente e non contemporanea (nel 2018), diviene sia esplicitamente una fervida critica alla politica di Donald Trump, sia la voce di un’altra e non del tutto inedita politica americana, diversa da quella che per quattro anni è stata ritenuta sciagurata da buona parte dell’opinione pubblica, in primis da Hollywood (un po’ un ricorso storico, dato che venne etichettata così a posteriori anche l’era ultra-conservatrice di Richard Nixon). 

Eppure, si inizia dal particolare per arrivare al generale, perché City Hall è una pellicola che in ben 275 minuti – non è un errore di battitura – si immerge tout court all’interno del “salotto” della cittadina natale del regista, ossia Boston. Un odissea estenuante, attraverso tutti i loci sociali, istituzionali e culturali che compongono un artefatto governo territoriale, che diviene l’archetipo dell’isola felice, a fronte di una politica nazionale sterile, regressiva e autarchica. Una specie di locus amoenus, indipendente e non condizionato dal trumpismo, un ultimo rimasuglio sia delle prerogative dell’era Obama (per esempio c’è un sostegno in tema sanitario all’obamacare), sia un’anticipazione sottile di quella che – almeno interpretandone i programmi – sarà la politica a sfondo liberale di Biden. 

Dai convegni, ai congressi, passando per i dipartimenti di polizia, i gruppi dei veterani di guerra, la nettezza urbana, gli istituti di assistenza e di carità, fino ai lavori in municipio e alle riunioni per i diritti delle donne, l’opera diviene un’epopea rigorosa, dettagliata e raffinata, sia sulle funzioni di un governo locale, sia come rappresentazione della necessità di un sistema variegato all’interno di una comunità, poiché solo attraverso uno stato di natura legislativo-democratica si può ovviare alla predisposizione dell’uomo di essere un animale senza dubbio sociale, altresì inconsciamente affascinato dall’anarchia. 

Un documentario scrupoloso anche sull’estetica, dato che (oltre ad una narrazione analitica e meno alterata possibile da parte del regista, che comunque pone delle scelte per razionalizzare e introdurre al meglio la miriade di temi e di sfaccettature, che sono presenti all’interno di un governo e nelle relative istituzioni e figure inerenti ad esso) Wiseman arricchisce il decoupage – tra le altre cose –  con due elementi funzionali: la camera fissa e la pittura. La prima serve a raffigurare – attraverso inquadrature da scatti fotografici – i palazzi e gli ambienti, costituendo tal volte un establishing shot per introdurre uno spazio filmico. Tale scelta di regia, funge inoltre, sia come break periodico per uno spettatore portato ai limiti dell’attenzione, sia come prolessi. La seconda invece, dato che Wiseman rifiuta di inserire flashback, è in riferimento alle inquadrature in primi piani di dipinti scelti ad hoc come materiale da excursus storiografico, così da risalire alle radici del male di una società d’oltreoceano, caratterizzata dal caos e dalla violenza, e che uno scrittore postmoderno come Thomas Pynchon per esempio, espone nel romanzo di stampo e linguaggio settecentesco Mason & Dixon. 

City Hall è un opera su un microcosmo, che guarda allo stesso tempo al macrocosmo, perché Boston è il riflesso della natura, delle peculiarità, delle differenti visioni e chissà di un futuro possibile dell’America e per l’America, possibilmente senza ricorsi storici, i quali dall’epoca della colonizzazione la attanagliano e la alternano fra affascinante progressismo e preoccupante regressione. È l’opera matura di un regista esperto, che a novant’anni realizza un documentario-mondo, che diviene un calderone di ogni tematica sensibile e costante della filmografia (ha il sentore di essere anche un film-congedo dalla forma d’arte prediletta, così come lo è stato dal gangster movie The Irishman per Martin Scorsese). 

La durata non deve spaventare lo spettatore più pigro (anche se in tale periodo la visione casalinga è in tal caso ardua, inasprendo un problema anche sull’estetica, perché ancor più di altre, questa pellicola andrebbe goduta in sala), dato che il documentario è sia didascalico, sia riflessivo, sia dallo sfumato eppur rilevante pathos (vedi gli aneddoti raccontati dai veterani sulle molteplici guerre del ‘900) così da renderlo assolutamente eterogeneo, come un viaggio affascinante e tortuoso nel selvaggio west. Un viaggio oltretutto, verso la sensibilizzazione, verso il confronto fra vari tipi di ideologie e culture, verso una difficile ma necessaria coesione etnica; infine, verso una visione perfettamente sintetizzata di una rarefatta governance, che oltre a dare voce e risposte a chiunque, tenta di tracciare un percorso lineare, che non faccia più essere periodicamente gli Stati Uniti il famoso “cane che si morde la coda”. 


  • Diretto da: Frederick Wiseman
  • Prodotto da: Frederick Wiseman, Karen Konicek
  • Fotografia di: John Davey
  • Montato da: Frederick Wiseman
  • Distribuito da: Zipporah Films
  • Casa di Produzione: Puritan Films, PBS, ITVS, WGBH, JustFilms/Ford Foundation, Sundance Institute, Pershing Square Foundation, LEF Moving Image Fund
  • Data di uscita: 08/09/2020 (Venezia), 28/10/2020 (USA)
  • Durata: 272 minuti
  • Paese: Stati Uniti
  • Lingua: Inglese

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