Intimate Distances
Ne “la metropoli e la vita dello spirito” Georg Simmel preannunciava (nel 1903) un’inevitabile solitudine dell’uomo moderno, all’interno della vita sociale capitalistica, che stava per cambiare per sempre gli aspetti relazionali dei contesti. Su ciò, ritorna anche Walter Benjamin con la teoria sulla modernità, in riferimento – fra gli altri – allo sviluppo dei “Passages” di Parigi.
Sarebbe utile riprendere tali saggi, prima di accingersi alla visione del documentario Intimate Distances, del regista Philip Warnell, presentato in concorso nella sezione LineaDOC del festival Linea D’Ombra di Salerno.
L’opera è ambientata nelle strade del Queens di New York, ove nell’incipit la camera si sofferma – utilizzando inquadrature da un punto di vista rialzato – su quello che succede in strada, ricordando in concretezza le teorie sociologiche dei filosofi di inizio novecento: la globalizzazione ha reso le vie frenetiche, mutando la logica del movimento tradizionale (per citare Bergson, in riferimento sia al movimento in sé, sia a quello cinematografico del corpo); il flusso di persone è tanto agglomerato, quanto solitario, poiché attirato dagli impegni, dalla tecnologia, da un luogo da raggiungere, dalle rispettive finalità.
Improvvisamente, il documentario diviene una ricerca umana, sia sul concetto di distanza nello spazio urbano, sia in riferimento ad avvenimenti e sentimenti topici dell’esistenza. Questo lo si fa, attraverso la figura di quella che sarà la protagonista, ossia una signora matura che comincia a perlustrare le strade inquadrate nelle prime sequenze (che la camera non abbandona mai, tra campi medi e lunghissimi), fermando persone casuali, e incominciando a parlare con esse di ogni sfaccettatura esistenziale.
Per lo più i temi sono: i cambiamenti, le decisioni, le scelte sbagliate, le vicissitudini puramente personali, e le visioni sul mondo e sulla vita, e sui rapporti umani e professionali. Quindi la protagonista rompe gli schemi più tradizionali dell’approccio relazionale – anche le stesse massime di Grice, che la logica della comunicazione propone come format standardizzato del dialogo – per far aprire del tutto totali sconosciuti, che hanno l’indole alla conversazione, ma che vengono poco stimolati dalla logica urbana delle megalopoli.
Poi c’è il ruolo del narratore fuori campo, che ha lo scopo – tra le altre cose – di razionalizzare ed esplorare in profondità i discorsi approcciati in strada, creando un vortice della nostalgia, delle ingiustizie, delle vite mancate e di quelle condizionate dalle politiche e dalle società. La camera invece, rimane per lo più fossilizzata su alcune strade topiche dei quartieri underground della maestosa megalopoli statunitense, spostandosi in piano sequenza, come se stesse anch’essa camminando a passo ondulato per le streets.
Intimate Distances è un documentario molto implicito e poco dichiarativo, ove lo sperimentalismo scardina i dogmi anche delle tecniche di inquadratura, che tal volte fungono da video amatoriali (o in quelle da cinema prima dell’avvento della steadycam, supporto frutto della genialità in primis di Stanley Kubrick, in riferimento alla regia di Shining). La camera si muove e si smuove, costituendo una sorta di reportage, oltre che di documentario vicino allo stile puro della forma cinematografica. Quello che interessa al regista è sia la visualizzazione tramite immagini dello spazio urbano odierno, sia il come una personalità forte – quella che lo stesso Benjamin definiva carattere distruttivo – può scardinare il movimento e la psicologia routinaria dei “Passages” newyorkesi.
Inoltre, la prima frase che costantemente la protagonista pone ai personaggi che incontra, non può che essere un riferimento inconscio o non voluto a film sulle scelte e sul cambiamento come Sliding Doors di Peter Howitt, proprio perché la vita così estesa in termini di spazio nella megalopoli, presuppone un cambio continuo del luogo, ma anche del rispettivo destino, in base alla scelta del treno o della metro per esempio. Su ciò, l’immaginario cinematografico ci ha giocato parecchio, in termini di narrazioni. Ad ogni modo, Intimate Distances è tanto vicino, quanto lontano a opere come Sliding Doors, perché sposa una logica anche della paura e dell’inatteso, che sono le vere e proprie piaghe dell’uomo contemporaneo, ossia quelle che ti condannano al non apprezzare in ogni caso i cambiamenti, bloccandoti nel limbo della comfort zone.